La chirurgia non sempre è necessaria per la tendinopatia degli ischiocrurali
Un recente studio pubblicato sulla rivista NEJM Evidence ha messo a confronto l’efficacia del trattamento chirurgico rispetto a quello non operatorio per le tendinopatie prossimali dei muscoli ischiocrurali. Questo studio, coordinato da Elsa Pihl del Karolinska Institutet di Stoccolma, rappresenta uno dei primi tentativi di esaminare rigorosamente questa tematica tramite un trial randomizzato. Secondo Pihl e colleghi il trattamento non operatorio non è inferiore a quello chirurgico in termini di funzionalità a lungo termine misurata con il Perth Hamstring Assessment Tool (PHAT). Questo è un risultato rilevante per la pratica clinica, poiché suggerisce che molti pazienti possono evitare i rischi associati alla chirurgia senza compromettere il recupero funzionale.
Lo studio ha coinvolto 216 pazienti tra i 30 e i 70 anni, reclutati in 10 centri in Svezia e Norvegia. Di questi, 119 pazienti sono stati assegnati in modo casuale al gruppo di trattamento chirurgico o non chirurgico, mentre 97 pazienti che hanno scelto il proprio trattamento sono stati coinvolti in un’analisi osservazionale parallela. L’endpoint primario era il punteggio PHAT a due anni dal trattamento, con un margine di non inferiorità fissato a 10 punti. I risultati hanno mostrato un punteggio medio PHAT di 79,9 per il gruppo chirurgico e 78,5 per quello non chirurgico, con una differenza media di 1,2 punti. Anche le analisi secondarie, tra cui il Lower Extremity Functional Scale (LEFS), non hanno evidenziato differenze significative tra i due gruppi.
Nel dettaglio, 57% dei pazienti trattati chirurgicamente è riuscito a tornare completamente allo sport, rispetto al 40% del gruppo non operativo. Tuttavia, il trattamento chirurgico ha comportato un numero maggiore di eventi avversi (9 vs. 3), tra cui infezioni e trombosi venose profonde.
L’editoriale di accompagnamento affidato a Maegan Shields e Tim Dwyer sottolinea come “molti pazienti con avulsioni prossimali dei muscoli ischiocrurali possono e devono essere gestiti adeguatamente con il trattamento non operatorio, ma coloro che desiderano tornare a praticare sport attivi potrebbero considerare la riparazione chirurgica”.
NEJM Evid 2024. Doi: 10.1056/EVIDoa2400056
http://doi.org/10.1056/EVIDoa2400056
NEJM Evid 2024. Doi: 10.1056/EVIDe2400211
http://doi.org/10.1056/EVIDe2400211
Il morbo di Dupuytren
Il morbo di Dupuytren è una malattia caratterizzata dalla flessione progressiva e permanente di uno o più dita. È una patologia che colpisce la fascia palmare della mano, causando la formazione di noduli e cordoni fibrosi che nel tempo tendono a flettere le dita verso il palmo. Ben più raramente può colpire il dorso della mano e delle dita. I sintomi includono noduli, raramente dolorosi, difficoltà nell’estendere le dita e, nei casi gravi, una mano rigida in flessione con successiva retrazione dei tessuti molli e deformità articolare. Il paziente, più che del dolore, si lamenterà del deficit funzionale, anche nello svolgere normali attività quotidiane come impugnare una bottiglia o inserire le mani nelle tasche dei pantaloni.1
Fattori di rischio:
– Il genere maschile è più soggetto allo sviluppo della patologia
– Attività: lavoratori manuali o sportivi che hanno eseguito per lungo tempo prese di forza, impugnato carichi pesanti oppure sono stati sottoposti a vibrazioni
– Comorbilità: diabete, psoriasi, epilessia, ridotto indice di massa corporea
– Alcolismo, assunzione di tabacco
– Traumatismi alla mano
– Predisposizioni genetica
La diagnosi si basa principalmente sull’esame obiettivo. Il paziente presenterà, a seconda dello stadio clinico della malattia, una mano con le dita atteggiate in flessione e sarà possibile palpare sul palmo o sulle dita dei noduli che poi confluiscono fino a fornare dei cordoni fibrosi (Fig.1), potranno anche essere visibile delle ombelicature retraenti della cute al palmo.
L’esame ecografico è indicato per valutare l’estensione della patologia e indagare la presenza di altre condizioni patologiche associate.
L’esame radiografico verrà consigliato nei casi più avanzati, dove possono verificati dei danni alle articolazioni, che atteggiate in flessione per lungo tempo possono andare incontro a rigidità.2
TIPOLOGIE DI TRATTAMENTO
Il trattamento conservativo ha uno scarso tasso di successo. Può prevedere cicli di fisioterapia, infiltrazioni locali di corticosteroidi, negli ultimi anni le collagenasi (enzimi litici) sono state utilizzate per “sciogliere” il tessuto patologico mediante infiltrazioni e poi estendere le dita il giorno successivo, attualmente però non sono più in commercio in Italia.
Nel caso di formazione di un nodulo a livello della mano senza retrazione cutanea o flessione delle dita, non vi è indicazione alla sua rimozione o ad esame bioptico, visto che sono procedure che potrebbero accelerare il decorso della malattia. Solo 1 su 5 pazienti con un nodulo primario necessiteranno di un trattamento chirurgico negli anni a venire. Nei casi avanzati e a seconda dei consigli del chirurgo della mano e delle necessità del paziente, è necessario l’intervento chirurgico di aponevrectomia selettiva o totale e plastica a zeta della cute con recupero, a volte parziale, dell’estensione delle dita. In alcuni casi selezionati di lieve progressione della malattia si può prevedere un trattamento chirurgico mini invasivo che prevede la cordotomia ad ago.3
Il recupero nel post-operatorio può prevedere dei tempi di guarigione a volte più lunghi del normale se la retrazione era import, la fisioterapia è molto importante per il recupero funzionale cosi come la cura della cicatrice cutanea.
Bibliografia
1. A systematic review and meta-analysis on the prevalence of Dupuytren disease in the general population of Western countries Lanting, Broekstra, Werker, van den Heuvel. Plast Reconstr Surg. 2014 Mar;133(3):593-603. doi: 10.1097/01.prs.0000438455.37604.0f. Erratum in: Plast Reconstr Surg. 2014 May;133(5):1312. PMID: 24263394; PMCID: PMC7121457.
2. The Molecular Pathogenesis of Dupuytren Disease: Review of the Literature and Suggested New Approaches to Treatment. Sayadi, Alhunayan, Sarantopoulos, Kong, Condamoor, Sayadi, Banyard, Shaterian, Leis, Evans, Widgerow. Ann Plast Surg. 2019 Nov;83(5):594-600. doi: 10.1097/SAP.0000000000001918. PMID: 31232804.
3. Trattato di chirurgia della mano – Landi, Catalano, Lucchetti 2007 Verduci Editore
Dopo una frattura dell’anca esercizi mirati migliorano il recupero di funzionalità
Secondo uno studio pubblicato sul Journal of the American Geriatrics Society, un programma di esercizi progressivi e supervisionati a domicilio della durata di 12 mesi può aiutare a migliorare il funzionamento e le prestazioni fisiche nei pazienti che si stanno riprendendo dopo un intervento chirurgico per frattura dell’anca. «Vale la pena investire nell’esercizio riabilitativo per le persone anziane dopo la frattura dell’anca. Una migliore funzionalità porta vantaggi all’individuo e anche alla società» spiega ha affermato Paula Soukkio, del South Karelia Social and Health Care District (Eksote), e della University of Jyväskylä, in Finlandia, autrice principale dello studio. I ricercatori hanno randomizzato 121 pazienti di età pari o superiore a 60 anni a un intervento con esercizi mirati e supervisionati oppure a ricevere le cure standard. Nel gruppo di intervento le sessioni di esercizi a casa sono state seguite da fisioterapisti due volte a settimana e hanno incluso elementi di forza, equilibrio, mobilità e componenti funzionali, nonché brevi consigli sull’attività fisica e sull’alimentazione. Gli esperti hanno visto che, rispetto ai pazienti nel gruppo di cura abituale, i pazienti nel gruppo che faceva esercizio hanno mostrato più miglioramenti nel corso di un anno nelle loro prestazioni fisiche, nella forza della presa e nella capacità di completare alcune attività della vita quotidiana. «Fornire una riabilitazione domiciliare progressiva e supervisionata di 12 mesi ai pazienti dopo la riparazione chirurgica di una frattura dell’anca può aiutare a migliorare il funzionamento e a ridurre la dipendenza, entrambe conseguenze comuni di questo tipo di lesioni» affermano gli autori. I ricercatori ritengono che gli studi futuri dovrebbero includere periodi di follow-up più lunghi per determinare se possano essere utili sessioni di esercizi di richiamo periodiche mirate a conservare gli effetti sul funzionamento. Inoltre, sarebbe utile valutare anche gli effetti di strategie alternative di attuazione degli esercizi a domicilio, come la riabilitazione a distanza, in questa popolazione.
J Am Geriatrics Society 2022. Doi: 10.1111/jgs.17824
http://doi.org/10.1111/jgs.17824
Una regolare attività di rafforzamento muscolare riduce il rischio di morte
Secondo uno studio pubblicato sul British Journal of Sports Medicine, svolgere dai 30 ai 60 minuti di attività di rafforzamento muscolare ogni settimana può ridurre del 10-20% il rischio di morte per tutte le cause, e in particolare per malattie cardiovascolari, diabete e cancro. «Le linee guida sull’attività fisica raccomandano attività regolari di rafforzamento muscolare per gli adulti. Ricerche precedenti indicano che l’attività di rafforzamento muscolare è associata a un minor rischio di morte, ma non è noto quale potrebbe essere la “dose” ottimale» spiega Haruki Momma, della Tohoku University Graduate School of Medicine, in Giappone, primo nome del lavoro. Per scoprire di più sull’argomento, i ricercatori hanno esaminato i database di ricerca alla ricerca di studi osservazionali prospettici che includessero adulti senza gravi problemi di salute monitorati per almeno due anni. L’analisi finale includeva 16 studi, di cui 12 avevano coinvolto uomini e donne, due solo uomini e tre solo donne. Tutti gli studi hanno preso in considerazione attività fisica aerobica o di altro tipo, nonché attività di rafforzamento muscolare. L’analisi dei dati aggregati ha mostrato che le attività di rafforzamento muscolare erano associate a un rischio di morte inferiore del 10-17% per qualsiasi causa, nonché per malattie cardiache e ictus, cancro, diabete e cancro ai polmoni. Non è stata trovata alcuna associazione tra il rafforzamento muscolare e la riduzione del rischio di specifici tipi di cancro, tra cui quello dell’intestino, dei reni, della vescica o del pancreas. La relazione ha mostrato una curva a forma di J, con una riduzione massima del rischio di morte per qualsiasi causa, malattie cardiovascolari e tutti i tumori compresa tra il 10% e il 20% per circa 30-60 minuti alla settimana di attività di rafforzamento muscolare. Per il diabete è stata osservata un’associazione a forma di L, con un’ampia riduzione del rischio praticando fino a 60 minuti alla settimana di attività di rafforzamento muscolare, dopodiché si è verificata una graduale riduzione. L’analisi congiunta del rafforzamento muscolare e delle attività aerobiche ha mostrato che la riduzione del rischio di morte per qualsiasi causa, malattie cardiovascolari e cancro era ancora maggiore quando questi due tipi di attività venivano combinati. «Poiché i dati disponibili sono limitati, saranno necessari ulteriori studi incentrati su una popolazione più diversificata per aumentare la certezza delle prove» concludono gli autori.
British Journal of Sports Medicine 2022. Doi: 10.1136/bjsports-2021-105061
http://dx.doi.org/10.1136/bjsports-2021-105061
Gli uomini con molto grasso corporeo hanno un maggiore rischio di fratture
Secondo un nuovo studio pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism, gli uomini con livelli elevati di grasso corporeo hanno una densità ossea inferiore, e potrebbero avere maggiori probabilità di subire fratture rispetto a quelli con livelli normali di grasso corporeo. La maggior parte degli studi ha mostrato effetti positivi o neutri della massa grassa corporea sulla salute delle ossa, e gli operatori sanitari spesso presumono che le persone con un peso corporeo più elevato abbiano un’elevata densità ossea e siano a basso rischio di frattura e che questi pazienti abbiano meno probabilità di essere sottoposti a screening per l’osteoporosi. «Abbiamo scoperto invece che una maggiore massa grassa era correlata a una minore densità ossea, e che queste tendenze erano più forti negli uomini rispetto alle donne» spiega Rajesh Jain, dell’Università di Chicago negli Stati Uniti, che ha diretto il gruppo di lavoro. «La nostra ricerca suggerisce che l’effetto del peso corporeo dipende dalla composizione della massa magra e grassa di una persona, e che un peso corporeo elevato da solo non è una garanzia contro l’osteoporosi» prosegue l’esperto. I ricercatori hanno analizzato la densità minerale ossea e i dati sulla composizione corporea di 10.814 persone di età inferiore ai 60 anni utilizzando i dati dal National Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) 2011-2018. L’analisi dei dati ha mostrato una forte associazione positiva tra massa magra e densità minerale ossea sia negli uomini che nelle donne. Al contrario, la massa grassa ha rivelato un’associazione moderatamente negativa con la densità minerale ossea, specialmente negli uomini. «Gli operatori sanitari dovrebbero prendere in considerazione lo screening per l’osteoporosi per i pazienti con peso corporeo elevato, soprattutto se hanno altri fattori di rischio come l’età avanzata, fratture precedenti, storia familiare o uso di steroidi» conclude Jain.
Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism 2022. Doi: 10.1210/clinem/dgac040
https://doi.org/10.1210/clinem/dgac040
L’esercizio fisico può contrastare la demenza, ma solo a determinate condizioni. Ecco quali
Secondo un documento pubblicato su Alzheimer’s & Dementia, l’esercizio fisico aumenta i livelli di alcune proteine in grado di rafforzare la comunicazione tra le cellule cerebrali attraverso le sinapsi, che possono essere un fattore chiave per controllare la demenza. Il lavoro rappresenta la più recente pubblicazione tratta da uno studio longitudinale su volontari che accettano di sottoporsi a periodiche valutazioni cognitive e psicomotorie e di donare i propri organi a fini scientifici dopo la morte. «Diversi studi clinici in cui è stato incluso un esercizio fisico moderato come terapia hanno mostrato un effetto positivo sia sulla cognizione che sullo spessore corticale» afferma Kaitlin Casaletto, della University of California, San Francisco, prima autrice dello studio. Per meglio comprendere la situazione, i ricercatori hanno esaminato i dati di 404 individui la cui attività fisica è stata monitorata per una media di 3,5 anni ante mortem. Dopo la morte, sono stati raccolti campioni da un massimo di dodici aree cerebrali essenziali per le capacità cognitive e psicomotorie, e su questi campioni sono state eseguite analisi quantitative e funzionali di otto proteine sinaptiche, ed è stata effettuata una valutazione istopatologica completa. I risultati hanno confermato che tassi più elevati di attività fisica quotidiana erano associati trasversalmente a un arricchimento quantitativo e funzionale di tutte le proteine sinaptiche analizzate, in particolare nelle regioni cerebrali legate al controllo motorio, come il nucleo caudato e il putamen. La relazione tra esercizio fisico e densità sinaptica è risultata indipendente sia dal carico neuropatologico riscontrato nelle stesse aree cerebrali sia dalla presenza di patologie che interessavano le capacità motorie. Tuttavia, l’analisi longitudinale dei dati ha indicato che gli effetti benefici dell’esercizio fisico erano altamente volatili, poiché i partecipanti che hanno mantenuto un’elevata attività fisica durante gli anni precedenti, ma che hanno interrotto questa abitudine negli ultimi due anni di vita, avevano densità sinaptiche simili a quelle osservate nei partecipanti più sedentari.
Alzheimer’s & Dementia 2022. Doi: 10.1002/alz.12530
http://doi.org/10.1002/alz.12530
L’attività fisica regolare può ritardare il deterioramento da Parkinson
Secondo uno studio pubblicato su Neurology, il mantenimento di livelli moderati o elevati di attività fisica regolare e delle abitudini di esercizio fisico, comprese le faccende domestiche, è stato fortemente associato a un migliore decorso clinico della malattia di Parkinson, e diversi tipi di attività fisica hanno mostrato effetti differenti. «I nostri risultati sono entusiasmanti, perché suggeriscono che potrebbe non essere mai troppo tardi per una persona con Parkinson per iniziare un programma di esercizi per migliorare il decorso della malattia» spiega Kazuto Tsukita, dell’Università di Kyoto in Giappone e dell’Accademia Americana di Neurologia, primo nome dello studio.
«Questo perché abbiamo scoperto che per rallentare la progressione della malattia, era più importante per le persone con Parkinson mantenere un programma di esercizi piuttosto che essere attive all’inizio della malattia» prosegue l’esperto. Per meglio comprendere la situazione, infatti, i ricercatori hanno esaminato i dati della Parkinson’s Progression Markers Initiative, che include valutazioni longitudinali e complete di molti parametri clinici. Gli autori hanno utilizzato principalmente i modelli lineari multivariati a effetti misti per analizzare gli effetti di interazione di una attività fisica regolare e dei livelli di esercizio da moderati a vigorosi, misurati attraverso il questionario Physical Activity Scale for the Elderly, sulla progressione dei parametri clinici, dopo aggiustamento per età, sesso, dose equivalente di levodopa e durata della malattia. Dallo studio su 237 pazienti con malattia di Parkinson precoce è emerso che l’attività fisica regolare e i livelli di esercizio da moderato a vigoroso al basale non hanno influenzato in modo significativo la successiva progressione clinica della malattia. Tuttavia, livelli medi di attività fisica regolare nel tempo erano significativamente associati a un deterioramento più lento della stabilità posturale e dell’andatura, e che i livelli di attività correlata al lavoro nel tempo erano collegati a migliore velocità di processazione.
Neurology 2022. Doi: 10.1212/WNL.0000000000013218
http://doi.org/10.1212/WNL.0000000000013218
Robot nella riabilitazione dopo artroplastica: l’efficacia dei dispositivi non è ancora chiara
L’utilizzo di robot nella riabilitazione post-chirurgica in caso di artroplastica totale o unicondilare del ginocchio potrebbe avere in futuro un ruolo interessante, anche se rimangono molti aspetti da chiarire, secondo una revisione pubblicata sul Muscles, Ligaments and Tendons Journal.
La chirurgia del ginocchio è una procedura comune per trattare i difetti della cartilagine, le lesioni dei tessuti molli come i legamenti crociati e osteoartrosi con artroplastica totale o unicondilare del ginocchio.
«Dopo l’intervento, ogni paziente viene sottoposto a un lungo periodo di riabilitazione, che in genere dura da sei settimane a sei mesi, con lunghe sessioni di fisioterapia gestite da personale qualificato. I robot potrebbero portare beneficio sia ai pazienti che ai fisioterapisti grazie alla loro capacità di ripetere i compiti con precisione e di misurare l’avanzamento della riabilitazione. Abbiamo voluto fornire una revisione critica delle diverse soluzioni robotiche finora proposte» dice Bernardo Innocenti, della Université Libre de Bruxelles, in Belgio, autore senior dell’articolo.
I ricercatori hanno classificato i robot in tre categorie, a seconda della loro modalità operativa, ovvero macchine a movimento passivo continuo (CPM) e macchine per esercizi terapeutici (TEM), robot per l’addestramento dell’andatura, ed esoscheletri. Gli esperti sottolineano che la robotica riabilitativa è un campo multidisciplinare e multifattoriale che coinvolge un mix di competenze, e che richiede, oltre a solide conoscenze di robotica, una profonda comprensione della biomeccanica del corpo umano e del sistema cognitivo e neurologico. Questo perché un robot progettato con insufficiente conoscenza del movimento articolare può ostacolare il processo riabilitativo e addirittura danneggiare le articolazioni umane.
«Da questo punto di vista, è importante notare che l’articolazione del ginocchio è un’articolazione complessa, che permette diversi movimenti, oltre alla flessione e all’estensione. Purtroppo, allo stato attuale, un numero molto limitato di dispositivi considera questo fatto anatomico».
Gli esperti sottolineano poi che, nonostante esistano diversi sistemi di riabilitazione robotica per gli arti inferiori, gli studi clinici con obiettivi chiari e solida metodologia che dimostrino l’effetto dell’uso di dispositivi robotici nel processo di riabilitazione sono pochi, e non è ancora chiaro quali caratteristiche siano fondamentali per l’efficacia di questo tipo di dispositivo.
Muscles, Ligaments and Tendons Journal è una rivista, open access, peer reviewed e indicizzata su Pubmed, Scopus e Embase. Raccoglie reviews, original papers, casi clinici e di ricerca di base relativi ad aspetti muscolo-scheletrici, legamenti, tendini, fisiologia dell’esercizio e kinesiologia.
www.lswr.it
M.T.L.J.
La riabilitazione a distanza migliora la qualità della vita dei pazienti con cancro avanzato
Secondo uno studio pubblicato su JAMA Oncology, offrire servizi di riabilitazione a distanza a pazienti con cancro in stadio avanzato migliora la funzione fisica, il dolore e la qualità della vita, e allo stesso tempo permette di trascorrere meno tempo negli ospedali e nelle case di cura. «I pazienti con tumori in stadio avanzato spesso perdono capacità funzionale e, di conseguenza, hanno una peggiore qualità della vita e una ridotta capacità di tollerare i trattamenti contro il cancro» spiega Andrea Cheville, della Mayo Clinic, prima autrice dello studio.
«Sappiamo che la riabilitazione e l’esercizio fisico possono invertire o rallentare tale perdita, ma spesso è difficile per i pazienti trovare e ottenere questi servizi. Il risultato è che troppe persone diventano meno capaci di prendersi cura di sé stesse e quindi dipendenti dagli altri. Per questo abbiamo cercato di capire se un programma di riabilitazione a distanza facilmente accessibile potesse migliorare la funzione e l’indipendenza di questi pazienti» prosegue Cheville. La sperimentazione ha coinvolto 516 partecipanti con tumori in stadio avanzato con limitazioni funzionali. I soggetti sono stati randomizzati a ricevere le loro cure e attività abituali (gruppo di controllo), oppure un intervento di teleriabilitazione o ancora teleriabilitazione in aggiunta a un intervento farmacologico per il dolore. Questo terzo gruppo è stato incluso per valutare se l’aggiunta della gestione del dolore potesse incrementare i benefici della riabilitazione a distanza. Per quanto riguarda la teleriabilitazione, i ricercatori hanno fatto preparare a un fisioterapista un programma di condizionamento fisico personalizzato che è stato presentato ai singoli partecipanti per telefono. I progressi sono stati monitorati e il feedback sul livello di dolore e sulla funzione fisica dei pazienti è stato condiviso tra i fisioterapisti e i pazienti online o per telefono, a seconda delle preferenze del paziente. In caso di necessità i pazienti sono stati indirizzati a fisioterapisti locali per migliorare ulteriormente i loro programmi. Ebbene, i risultati hanno indicato che i soggetti assegnati alla sola teleriabilitazione hanno ottenuto i benefici maggiori, con più alti livelli di funzionalità e indipendenza, riduzione del dolore e meno giorni trascorsi in ospedali e case di cura.
JAMA Oncol. 2019. doi: 10.1001/jamaoncol.2019.0011
Frattura caviglia, bastano tre settimane per ottenere guarigione e meno danni
Nei pazienti con fratture stabili del perone, indossare un gesso o un tutore per tre settimane può essere efficace quanto portare il gesso per sei settimane, secondo uno studio di non inferiorità pubblicato sul British Medical Journal. «È universalmente riconosciuto che occorrano circa sei settimane per ottenere una guarigione della frattura sufficiente per resistere alle tensioni causate dal peso e in linea con questa convinzione, il trattamento non chirurgico tradizionale di una frattura di tipo Weber B stabile consiste nel posizionamento di un gesso al di sotto del ginocchio per sei settimane» dice Tero Kortekangas, dello Oulu University Hospital, in Finlandia, primo autore dello studio. «Ci sono numerose prove che confermano che questa strategia porta ad un alto tasso di sintesi delle fratture, ma è associata anche a danni, come l’aumento della rigidità della caviglia e trombosi venosa profonda» aggiunge. La consapevolezza di questo compromesso tra benefici e danni ha spinto a prendere in considerazione strategie non operatorie più brevi, più funzionali e meno fastidiose che comporterebbero comunque una guarigione con successo della frattura. Seguendo questa linea, i ricercatori hanno randomizzato quasi 250 pazienti finlandesi di età pari o superiore a 16 anni con nuove fratture stabili del perone a ricevere gesso al di sotto del ginocchio per sei settimane (trattamento standard) o gesso o un dispositivo di ortesi per tre settimane.
Tutti i pazienti sono stati autorizzati ad appoggiare il peso sulla caviglia fratturata subito dopo aver ricevuto il trattamento e quelli che hanno ricevuto il tutore potevano togliere il dispositivo secondo necessità e muovere la caviglia quando lo desideravano. A un anno, l’esito primario, misurato tramite il punteggio sintomatologico della frattura Olerud-Molander Ankle Score (OMAS), è risultato simile tra il gruppo con gesso per sei settimane e ciascuno dei gruppi con trattamento di tre settimane (OMAS medio 87,6 nel gruppo con gesso per sei settimane; 91,7 nel gruppo con gesso per tre settimane e 89,8 nel gruppo con ortesi per tre settimane). Complessivamente, il 99% dei pazienti ha raggiunto la guarigione della frattura, a un tasso che non ha mostrato variazioni significative tra i gruppi. «L’unica differenza statisticamente significativa è stato un leggero miglioramento della flessione plantare della caviglia e dell’incidenza della trombosi venosa profonda nel gruppo trattato con ortesi per tre settimane rispetto al gruppo trattato con gesso per sei settimane» precisano gli autori.
BMJ. 2019. doi: 10.1136/bmj.k5432
Dolore muscolo-scheletrico, terapia fisica precoce potrebbe aiutare a diminuire l’uso cronico di oppiacei
Secondo uno studio retrospettivo pubblicato su JAMA Network Open, l’impiego di un programma di terapia fisica precoce negli adulti con dolore muscolo-scheletrico alla spalla, al collo, al ginocchio e alla regione lombare della schiena è associato a una minore probabilità di uso successivo di oppiacei. «I metodi non farmacologici per ridurre il rischio di creare nuovi utilizzatori cronici di farmaci tra i pazienti con dolore muscolo-scheletrico sono importanti, considerato il peso dell’epidemia da uso di oppiacei negli Stati Uniti. Per questo abbiamo voluto valutare l’associazione tra terapia fisica precoce, intesa come almeno una sessione ricevuta entro 90 giorni dalla data della diagnosi, e l’uso successivo di farmaci oppiacei in pazienti con nuova diagnosi di dolore muscolo-scheletrico» spiega Eric Sun, della Stanford University School of Medicine, primo nome dello studio condotto su circa 89.000 adulti. Tra i pazienti inclusi nello studio, 51.351 (57,7%) erano maschi e 37.634 (42,3%) erano femmine, con un’età compresa tra 18 e 64 anni, e 26.096 (29,3%) avevano ricevuto un intervento di terapia fisica precoce. Dopo aggiustamento per fattori confondenti, la terapia fisica precoce è risultata associata a una riduzione statisticamente significativa dell’incidenza dell’uso di oppiacei tra 91 e 365 giorni dopo la data della diagnosi per i pazienti con dolore alla spalla (odds ratio [OR], 0,85), dolore al ginocchio (OR, 0,84) e lombalgia (OR, 0,93). Per i pazienti che hanno utilizzato oppiacei in seguito, la terapia fisica precoce è stata comunque associata a una riduzione statisticamente significativa di circa il 10% della quantità di farmaco assunta per il dolore alla spalla e al ginocchio e per la lombalgia, ma non per il dolore al collo. Gli autori concludono che la terapia fisica precoce sembra essere associata a un minore uso successivo di farmaci oppiacei, ma sottolineano che, trattandosi di uno studio osservazionale, altri fattori non presi in considerazione potrebbero spiegare i risultati, e che quindi saranno necessari ulteriori approfondimenti.
Anziani ricoverati in acuto: il declino funzionale si può combattere con l’esercizio mirato
Un intervento basato su esercizi fisici si è dimostrato sicuro ed efficace nell’invertire il declino funzionale associato a ricovero in situazioni acute in pazienti molto anziani, secondo uno studio pubblicato su JAMA Internal Medicine. «Il declino funzionale è prevalente tra i pazienti anziani ospedalizzati in acuto. I protocolli di esercizio e riabilitazione precoce applicati durante il periodo di ricovero potrebbero prevenire declino funzionale e cognitivo, per questo abbiamo voluto valutare gli effetti di un innovativo intervento di esercizio multicomponente in questa popolazione di pazienti» dice Nicolás Martínez-Velilla, del Complejo Hospitalario de Navarra a Pamplona, in Spagna, primo autore del lavoro. I ricercatori hanno studiato 370 pazienti con età media di 87,3 anni ricoverati in un’unità di terapia intensiva in un ospedale pubblico a Navarra. I pazienti sono stati randomizzati a un gruppo di intervento, che prevedeva esercizio personalizzato di resistenza a moderata intensità, di equilibrio e di cammino in due sessioni giornaliere, o a un gruppo di controllo con cure ospedaliere di tipo tradizionale, che includevano riabilitazione fisica quando necessario.
La durata media della degenza ospedaliera è stata di otto giorni in entrambi i gruppi, mentre la durata media dell’intervento è stata di cinque giorni. Non sono stati osservati effetti avversi con l’intervento, e il programma di intervento ha apportato benefici significativi rispetto alla terapia abituale. Alla dimissione, infatti, il gruppo di intervento ha mostrato un aumento medio di 2,2 punti sulla scala Short Physical Performance Battery (SPPB) e di 6,9 punti sull’indice di indipendenza di Barthel rispetto al gruppo di cure abituali. Il ricovero ha comportato una riduzione della capacità funzionale (variazione media dal basale a dimissione nell’indice di Barthel di -5,0 punti) nel gruppo di assistenza ordinaria, mentre l’intervento con esercizio ha invertito questa tendenza. Sono stati riscontrati anche vantaggi significativi a livello cognitivo rispetto al gruppo di terapia abituale. In un editoriale di accompagnamento, William Hall, della University of Rochester School of Medicine & Dentistry, sostiene che nonostante alcune debolezze questo studio presenti risultati importanti che richiedono di essere approfonditi.
Lesioni spinali, stimolazione epidurale e riabilitazione intensa utili per la deambulazione
Due diversi studi hanno recentemente riportato i successi ottenuti tramite l’elettrostimolazione epidurale nell’aiutare pazienti paralizzati a riacquistare la capacità di camminare. Nel primo studio, pubblicato sul New England Journal of Medicine, un gruppo di lavoro guidato da Susan Harkema, della University of Louisville (Stati Uniti), ha arruolato quattro pazienti che avevano subito lesioni della colonna vertebrale circa tre anni prima. I pazienti non avevano abilità motorie al di sotto del livello delle loro lesioni; due di loro avevano però conservato la sensibilità almeno in piccola parte. I ricercatori hanno impiantato un elettrostimolatore epidurale su segmenti spinali da L1 a S1-S2, e in seguito i pazienti si sono sottoposti a mesi di terapia fisica quotidiana con lo stimolatore acceso. I due pazienti che avevano conservato parziale sensibilità hanno riacquistato la capacità di camminare con assistenza dopo 15 e 85 settimane. Gli altri due sono riusciti a stare in piedi in modo indipendente e a eseguire alcuni esercizi su un tapis roulant ma non sono stati in grado di camminare sul terreno. Un paziente ha subito una frattura a un fianco durante l’allenamento.
Nel secondo studio, pubblicato su Nature Medicine, Megan Gilldella Mayo Clinic di Rochester e il suo gruppo di lavoro hanno seguito un uomo con completa perdita di sensibilità e funzione motoria sotto al livello della sua lesione al midollo spinale. I ricercatori hanno impiantato al paziente uno stimolatore epidurale sotto al livello della lesione e il paziente si è in seguito sottoposto a 43 settimane di allenamento, riacquistando la capacità di camminare per circa 100 metri sul terreno con assistenza. Il gruppo di ricerca ha definito i risultati “altamente significativi”. «Per quanto ne sappiamo, questo è il primo report di una deambulazione indipendente resa possibile da un allenamento specifico in presenza di elettrostimolatore spinale in un paziente con perdita completa di funzione senso-motoria degli arti inferiori dovuta a lesione della colonna vertebrale» concludono gli autori.
N Engl J Med. 2018. doi: 10.1056/NEJMoa1803588
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/30247091
Nature Medicine 2018. Doi: 10.1038/s41591-018-0175-7
https://www.nature.com/articles/s41591-018-0175-7
Nuove raccomandazioni per la gestione del dolore artritico: valutare e gestire il paziente a 360 gradi
La European League Against Rheumatism (EULAR) ha pubblicato su Annals of the Rheumatic Diseases una serie di raccomandazioni, pensate per aiutare gli operatori sanitari nella gestione del dolore nei pazienti con artrite infiammatoria e osteoartrite nel difficoltoso compito di ridurre l’onere di tale problema per l’individuo e la società. «Il dolore è il sintomo predominante nella maggior parte delle persone con artrite infiammatoria e osteoartrite. Molti pazienti cercano aiuto per ridurre il dolore, e un supporto tempestivo e competente può ridurre il problema, aumentare la funzionalità e il benessere e ridurre i costi individuali e sociali» spiega Rinie Geenen, della Utrecht University, a capo del gruppo di lavoro multidisciplinare che ha condotto una revisione sistematica della letteratura per valutare le prove riguardanti gli effetti sul dolore di più modalità di trattamento. La task force, che comprendeva 18 membri provenienti da 12 paesi, era composta da rappresentanti di pazienti, infermieri, fisioterapisti, psicologi, reumatologi, medici generici, terapisti occupazionali, epidemiologi clinici e ricercatori.
Sulla base di 186 studi esaminati e dell’opinione degli esperti, i ricercatori hanno sottolineato l’importanza per l’operatore sanitario di adottare una gestione incentrata sul paziente in una prospettiva bio-psico-sociale, di avere una conoscenza sufficiente della patogenesi di artrite infiammatoria e osteoartrite e di essere in grado di differenziare il dolore localizzato e generalizzato. A questo proposito è stato ritenuto fondamentale il momento della valutazione dei bisogni, delle preferenze e delle priorità dei pazienti, delle caratteristiche del dolore, dei trattamenti del dolore precedenti e in corso, dell’infiammazione e del danno articolare, nonché dei fattori psicologici correlati al dolore stesso. Secondo la task force, i professionisti in tutte le strutture sanitarie dovrebbero avere le conoscenze e le abilità richieste per aiutare le persone a gestire meglio il loro dolore, basandosi prima di tutto sull’educazione. Sulla base delle esigenze del paziente, poi, l’educazione dovrebbe essere integrata da attività ed esercizio fisico, aiuti e dispositivi di assistenza, interventi psicologici e sociali, educazione all’igiene del sonno, controllo del peso, opzioni terapeutiche farmacologiche e articolari e una modalità interdisciplinare della gestione del dolore.
Ann Rheum Dis. 2018. doi: 10.1136/annrheumdis-2017-212662
Il movimento fisico continuato per sei mesi migliora cognizione negli anziani
Fare esercizio fisico per 52 ore in un periodo di sei mesi può rappresentare una quantità di movimento ottimale per il miglioramento cognitivo negli anziani, secondo quanto ha dimostrato una revisione sistematica pubblicata su Neurology: Clinical Practice. «I costrutti cognitivi più sensibili all’esercizio sono stati la velocità di elaborazione e la funzione esecutiva. Questo è un risultato incoraggiante perché sono tra i primi che iniziano a peggiorare con il processo di invecchiamento. Abbiamo la prova che si può effettivamente ridurre il tempo di invecchiamento nel cervello adottando un regime di allenamento regolare» dice Joyce Gomes-Osman, della University of Miami Miller School of Medicine, prima autrice dello studio.
I ricercatori hanno incluso nella loro revisione 98 lavori che testassero l’effetto dell’esercizio sulla cognizione per un totale di 11.061 partecipanti con un’età media di 73 anni, il 67,58% di sesso femminile. Il 59,41% dei partecipanti totali è stato classificato come adulto sano in età avanzata, il 25,74% aveva un declino cognitivo lieve (MCI) e il 14,85% era affetto da demenza. Le prove cliniche hanno valutato esercizi che comprendevano camminata, ciclismo, danza, allenamento della forza, tai-chi e yoga su periodi che andavano da quattro settimane a un anno; nel 37,8% si trattava di esercizi a elevata intensità e nel 36,7% a media intensità. Ebbene, tutti questi tipi di esercizio sono risultati collegati a migliori capacità cognitive sia negli individui sani che in quelli con MCI, ma solamente se portati avanti per un periodo di sei mesi. Poiché la maggior parte dei partecipanti (il 58,2%) non si allenava regolarmente prima di partecipare a uno degli studi considerati, questi dati supportano decisamente il fatto che una riduzione del comportamento sedentario sia associata alla salute del cervello. Secondo gli autori, infine, il fatto di poter quantificare quanto effettivamente sia necessario impegnarsi per ottenere dei risultati potrebbe motivare maggiormente le persone rispetto a un semplice invito a muoversi di più.
Neurology: Clin Prac 2018. Doi: 10.1212/CPJ.0000000000000460
Fda approva nuovo software per rilevare le fratture del polso
La Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha approvato l’uso di un software dedicato al rilevamento e alla diagnostica con l’aiuto del computer chiamato OsteoDetect, pensato per accelerare il processo di diagnosi delle fratture del polso negli adulti. OsteoDetect, commercializzato da Imagen, azienda di New York City, utilizza un algoritmo di intelligenza artificiale per rilevare le fratture del radio distale analizzando immagini radiografiche standard. Il software contrassegna l’immagine in cui ha eventualmente riscontrato la frattura per un’ulteriore revisione da parte di un medico, ed è progettato per l’utilizzo in più ambientazioni, tra cui cure di base, reparti di pronto soccorso, cure urgenti e cliniche specializzate. «Si tratta di uno strumento complementare e non è destinato a sostituire la visione della radiografia da parte di un medico o il giudizio clinico del professionista» sottolinea la FDA.
L’approvazione è stata basata su due studi retrospettivi che includevano 1.200 casi. In uno studio, il tasso di rilevamento del software veniva confrontato su 1.000 casi con quello di tre ortopedici e chirurghi della mano certificati. Ebbene, secondo la FDA, entrambi gli studi hanno dimostrato che le prestazioni dei medici nel rilevare le fratture del polso sono risultate migliori quando veniva utilizzato il software. Sono stati riscontrati infatti maggiore sensibilità, specificità, valori predittivi positivi e negativi, con l’aiuto di OsteoDetect rispetto alla prestazione dei medici senza alcun aiuto secondo la pratica clinica standard. La FDA ha rilasciato l’autorizzazione attraverso il percorso de novo per i nuovi dispositivi a basso e medio rischio. Si tratta della seconda approvazione da parte della FDA per un dispositivo basato sull’intelligenza artificiale. Il primo strumento, IDxDR, era stato approvato in aprile. Si tratta di un dispositivo dedicato alla rilevazione della retinopatia diabetica negli adulti, progettato per l’uso da parte di personale non specialista in oftalmologia.
FDA News Release
Dolore negli anziani, interventi psicologici funzionano ma limitatamente
Un nuovo studio pubblicato su JAMA Internal Medicine mostra che interventi psicologici per il trattamento del dolore cronico non causato da cancro negli adulti più anziani possono apportare benefici, seppure piccoli, nella riduzione del dolore e delle convinzioni catastrofiche e nel miglioramento della gestione autonoma del dolore. «Il dolore cronico che non deriva da tumori è comune tra gli adulti più anziani e viene gestito frequentemente con terapie farmacologiche che producono risultati non ottimali. Alcuni medici raccomandano trattamenti psicologici, ma sono disponibili poche informazioni per quanto riguarda la loro efficacia negli anziani» afferma Bahar Niknejad, della Eastern Virginia Medical School di Norfolk, Stati Uniti, primo nome dello studio.
I ricercatori hanno voluto determinare l’efficacia di questi interventi valutando dati ottenuti tramite MEDLINE, Embase, PsycINFO e Cochrane Library. L’analisi ha incluso studi randomizzati che valutavano un intervento psicologico che utilizzasse le modalità comportamentali cognitive da sole o in combinazione con un’altra strategia, e che avessero arruolato individui con dolore cronico (da più di tre mesi) con un’età media di 60 anni o più. L’intensità del dolore è stata presa in considerazione come esito primario, mentre gli esiti secondari includevano interferenza nel dolore, sintomi depressivi, ansia, convinzioni catastrofiche, gestione del dolore, della funzione fisica e della salute fisica. Dopo la selezione per questi elementi sono stati inclusi nell’analisi 22 studi, per un totale di 2.608 partecipanti (1.799 donne), con età media del campione di 71,9 anni. I piccoli benefici nella riduzione del dolore e delle convinzioni catastrofiche e nella gestione del dolore documentati al termine del trattamento, persistevano fino a sei mesi dopo la fine del trattamento solo per la riduzione dell’intensità del dolore. I risultati sono stati più forti quando la terapia utilizzava approcci di gruppo. «Saranno necessari sforzi per sviluppare e per studiare interventi psicologici che generano effetti più robusti e che sono sostenibili in questa crescita popolazione di pazienti» concludono gli autori.
JAMA Intern Med. 2018. doi: 10.1001/jamainternmed.2018.0756
Fisioterapia respiratoria pre-operatoria: dimezza le complicanze polmonari nei pazienti sottoposti ad interventi di chirurgia addominale maggiore
La chirurgia addominale maggiore è associata a un rischio aumentato di polmonite post-operatoria, ma insegnando ai pazienti alcuni esercizi di respirazione da praticare immediatamente dopo il risveglio dall’intervento è possibile dimezzare l’incidenza di complicazioni polmonari, secondo uno studio pubblicato sul British Medical Journal. «Questi risultati sono direttamente applicabili alle decine di milioni di pazienti in lista per un intervento addominale maggiore elettivo In tutto il mondo» scrive Ianthe Boden, della University of Melbourne, Australia, che ha guidato il gruppo di lavoro. I ricercatori hanno arruolato 441 adulti in Australia e Nuova Zelanda sei settimane prima della chirurgia elettiva della parte superiore dell’addome, e li hanno assegnati in modo casuale a ricevere 30 minuti di formazione e esercizi di respirazione faccia a faccia (n = 222) o un opuscolo informativo sulle complicanze polmonari post-operatorie e sul potenziale beneficio degli esercizi di respirazione precoce (n=219). I pazienti di entrambi i gruppi hanno ricevuto la cura standard post-operatoria, che comprendeva un programma precoce diretto da un fisioterapista iniziato nel primo giorno dopo l’intervento. Nel 20% dei pazienti si sono verificate complicanze polmonari entro due settimane dall’intervento. Nell’analisi intent-to-treat, il 12% (27/218) dei pazienti nel gruppo di intervento ha sviluppato una complicanza rispetto al 27% (58/214) nel gruppo di controllo.
Dopo aver adattato per comorbilità, dati demografici dei pazienti e fattori chirurgici, il rischio di complicanze è diminuito del 52% con l’intervento. I risultati hanno anche mostrato che l’intervento ha avuto effetto maggiore negli uomini, nelle persone di età inferiore ai 65 anni, nei pazienti sottoposti a un intervento chirurgico sul colon-retto, e quando la formazione veniva fatta da un fisioterapista esperto. Non sono state riscontrate differenze negli esiti secondari dello studio, tra cui durata del ricovero, dimissione, riammissioni o deambulazione. «Comunemente in un servizio post-operatorio di fisioterapia, la formazione inizia il primo o il secondo giorno dopo l’intervento, e potrebbe essere troppo tardi, poiché la maggior parte delle complicanze si sono già verificate. Inoltre, il dolore, la nausea, l’analgesia, l’ansia e la sedazione persistente possono compromettere la capacità di un paziente di comprendere le istruzioni quando il primo contatto con la fisioterapia è solo nella fase post-operatoria» concludono gli autori.
Fratture anca, ritardare intervento chirurgico può aumentare il rischio di complicazioni
Attendere più di 24 ore prima di sottoporre un paziente a un intervento chirurgico per la frattura dell’anca può essere associato a un aumento del rischio di morte e complicazioni. «Nell’ambiente medico rimangono disaccordi circa il ritardo accettabile per la riparazione chirurgica della frattura dell’anca. Le linee guida negli Stati Uniti e in Canada raccomandano un intervento chirurgico entro 48 ore» afferma Daniel Pincus, dell’Università di Toronto, primo autore dello studio pubblicato su Jama. I ricercatori hanno analizzato i dati di 42.230 adulti sottoposti a un intervento per frattura dell’anca tra aprile 2009 e marzo 2014 in 72 ospedali in Ontario, Canada. Sono stati valutati il tempo trascorso dall’arrivo al pronto soccorso fino all’intervento chirurgico (esposizione) e la morte entro 30 giorni dall’ammissione in ospedale per la chirurgia per la frattura dell’anca (esito). I risultati hanno mostrato che i pazienti sottoposti a intervento chirurgico per frattura dell’anca dopo 24 ore presentavano un lieve aumento del rischio di morte rispetto a pazienti sottoposti a intervento chirurgico entro 24 ore (6,5% contro 5,8%). Più in dettaglio il rischio sembra diminuire leggermente fino a un ritardo di 24 ore, momento in cui inizia ad aumentare progressivamente con il passare del tempo. Inoltre, anche il rischio di complicazioni come l’infarto, la trombosi venosa profonda, l’embolia polmonare e la polmonite, è risultato più alto in pazienti che avevano subito un intervento chirurgico dopo 24 ore.
«Per i pazienti con frattura dell’anca, sembra valere la regola “prima è meglio”, quando si tratta di tempi di riparazione operatoria, perché un tempo di attesa superiore a alla soglia delle 24 ore si associa a un maggior rischio di mortalità a 30 giorni e di altre complicazioni» spiegano Mark Vrahas e Harry Sax, del Cedars Sinai Medical Center di Los Angeles, in un editoriale di commento. «Ottimizzare l’assistenza per i pazienti con fratture dell’anca richiederà lo sviluppo di sistemi con valutazione e stabilizzazione preoperatorie dei pazienti, maggiore flessibilità di pianificazione e più capacità di lavoro chirurgico e approcci efficaci per garantire la riparazione chirurgica al più presto possibile, idealmente entro 24 ore come standard, piuttosto che come eccezione. Quando si tratta di migliorare l’assistenza ai pazienti con frattura dell’anca, i tempi sembrano essere importanti» concludono.
La sindrome da fatica cronica può essere gestita anche a casa con la supervisione di un terapista
Un programma di esercizio graduale auto-gestito dal paziente sotto la guida di un fisioterapista può aiutare a ridurre i sintomi della sindrome da fatica cronica. Lo sostengono dalla pagine di The Lancet, i ricercatori guidati da Lucy Clark, della Queen Mary University di Londra, nel Regno Unito che assieme ai colleghi ha coinvolto nello studio 211 pazienti affetti da sindrome da fatica cronica. «Per contrastare i sintomi di questa sindrome vengono raccomandate terapia fisica graduale e terapia cognitivo comportamentale» spiega l’autrice, che poi aggiunge: «La terapia fisica però viene in genere effettuata in clinica da terapisti specializzati e può risultare costosa per il paziente sia dal punto di vista economico che dell’impegno richiesto per recarsi in clinica». Per verificare l’efficacia di un approccio auto-gestito che non richiedesse al paziente di recarsi in clinica, i ricercatori hanno suddiviso i partecipanti allo studio in due gruppi assegnandone uno a cure cliniche specialistiche fatte di farmaci per gestire sintomi come insonnia, dolore o depressione.
L’altro gruppo ha invece messo in campo per 12 settimane l’approccio di esercizio graduale auto-gestito nel quale dopo aver stabilito una routine di esercizio settimanale veniva scelta dal paziente stesso un’attività da aggiungere a quella routinaria. «In molti hanno scelto la camminata che poteva essere anche di solo un minuto al giorno ma che veniva aumentata gradualmente in termini di durata o intensità di non più del 20% a settimana» chiariscono gli autori, precisando che nelle prime 8 settimane i pazienti di questo secondo gruppo avevano effettuato 8 sessioni con lo specialista via telefono o via Skype per chiarire i loro dubbi. E a conti fatti, dopo 12 settimane circa 1 paziente su 5 (18%; 17/97) nel gruppo trattamento auto-gestito aveva riferito di sentirsi “molto meglio”, rispetto a 1 su 20 (5%; 4/101) nell’altro gruppo. «L’approccio auto-gestito funziona e potrebbe rivelarsi utile per migliorare l’aderenza al trattamento perché permette al paziente di evitare la fatica e i costi degli spostamenti verso la clinica» dice Clark che poi conclude: «A questo punto servono ulteriori studi per dimostrare se l’effetto positivo dura anche oltre le 12 settimane».
The Lancet 2017. Doi: 10.1016/S0140-6736(16)32589-2
La riabilitazione dopo l’ictus è più efficace se multimodale
I risultati di uno studio recentemente pubblicato su Stroke sottolineano che affiancare le cure tradizionali a strategie basate sulla musica e il ritmo oppure sulla ippoterapia può migliorare il processo di riabilitazione dopo un ictus. «C’è una grande necessità di valutare l’efficacia di interventi riabilitativi multimodali utilizzati nelle fasi più tardive in pazienti che hanno subito un ictus e che spesso non ricevono trattamenti dopo la fase sub-acuta» esordisce Lina Bunketorp-Kall, dell’Università di Göteborg, in Svezia, e prima autrice della ricerca. «Studi recenti hanno dimostrato che terapie basate su musica, danza o sessioni al maneggio portano risultati promettenti in pazienti con diverse condizioni neurologiche» aggiunge. Assieme ai colleghi, la ricercatrice ha coinvolto nello studio 123 soggetti che avevano subito un ictus sottoponendoli due volte a settimana per 12 settimane a una delle tre terapie previste nella ricerca: ritmo-musico terapia, ippoterapia o terapia standard.
«L’esito primario era il cambiamento nella percezione da parte dei pazienti del recupero dopo l’ictus, valutato sulla Stroke Impact Scale» dicono gli autori, precisando che tra gli esiti secondari erano inclusi i cambiamenti di equilibrio, deambulazione, presa, forza e aspetti cognitivi. E a conti fatti, le valutazioni in cieco effettuate al basale e poi a 3 e 6 mesi di follow up hanno dimostrato che il cambiamento medio nella percezione del recupero dopo l’ictus – misurato come cambiamento medio rispetto al basale su una scala da 1 a 100 – è risultato maggiore con la ritmo-musico terapia (5,2 punti) e con la ippoterapia (9,8 punti) rispetto alla terapia standard di controllo (-0,5 punti). Inoltre i miglioramenti si sono mantenuti per 6 mesi e hanno riguardato anche gli esiti secondari. «L’approccio multimodale alla riabilitazione post-ictus è interessante e potenzialmente molto efficace perché si concentra su diverse componenti del problema dando probabilmente il via a un effetto sinergistico che rende le terapie di recupero più efficaci» conclude Bunketorp-Kall.
Stroke. 2017. doi: 10.1161/STROKEAHA.116.016433
Lo yoga è sicuro ed efficace quanto la terapia fisica nella riduzione del dolore da lombalgia cronica
I risultati di uno studio pubblicato su Annals of Internal Medicine hanno mostrato che la pratica dello yoga è sicura ed efficace quanto la terapia fisica nell’alleviare il dolore e nel ripristinare la funzionalità in persone con dolore cronico alla schiena, e che, rispetto a un intervento di sola educazione, i pazienti che avevano praticato yoga o fatto terapia fisica hanno anche meno probabilità di assumere farmaci per il dolore. «Il dolore cronico da lombalgia colpisce circa il 10% degli adulti statunitensi e ha un maggiore impatto sulle minoranze razziali o etniche e sulle persone di stato socio-economico più basso» spiega Robert Saper, della Boston University School of Medicine, autore principale dello studio. «La terapia fisica è la terapia rimborsabile e non farmacologica più comunemente prescritta dai medici, ma linee guida cliniche, metanalisi e diversi grandi studi randomizzati controllati supportano anche la pratica dello yoga. Non è noto quale delle due terapie funzioni meglio, né si sa molto sull’efficacia dello yoga in pazienti con grave disabilità funzionale e dolore» aggiunge. In uno studio di non inferiorità per determinare se lo yoga fosse statisticamente efficace come la terapia fisica, i ricercatori hanno randomizzato 320 partecipanti, per la maggior parte con basso reddito e di razze diverse, a 12 lezioni settimanali di yoga o a 15 incontri di terapia fisica, oppure ancora a ricevere un libro educativo e newsletter su come affrontare il dolore cronico alla schiena.
Dopo la fase di intervento, i partecipanti hanno proseguito con una fase di mantenimento e sono stati seguiti fino a un anno. I risultati hanno mostrato che una lezione di yoga progettata per i pazienti con lombalgia cronica era efficace come la terapia fisica per ridurre il dolore, migliorare la funzionalità e ridurre l’uso dei farmaci antidolorifici. I miglioramenti in entrambi i gruppi di yoga e terapia fisica sono stati conservati a un anno senza alcuna differenza tra le strategie di conservazione. «La pratica dello yoga può essere un’alternativa ragionevole alla terapia fisica a seconda delle preferenze del paziente, della disponibilità e del costo» concludono i ricercatori.
Ann. Int Med 2017. doi: 10.7326/M16-2579
Le iniezioni di corticosteroidi non migliorano l’osteoartrosi del ginocchio
Secondo uno studio recentemente pubblicato su Jama, il trattamento a base di iniezioni intra-articolari di corticosteroidi non riduce la perdita di cartilagine e il dolore in pazienti con osteoartrosi sintomatica de ginocchio. «Le stime parlano di oltre 9 milioni di persone affette da osteoartrosi sintomatica del ginocchio negli Stati Uniti e i trattamenti sono volti in genere a ridurre i sintomi ma non esistono terapie efficaci nell’influenzare la progressione strutturale della malattia» esordisce Timothy McAlindon, del Tufts Medical Center di Boston e primo autore dello studio, nel quale sono state coinvolte 140 persone con patologia sintomatica e sinovite.
«I dati disponibili suggeriscono che l’osteoartrosi del ginocchio sia una malattia infiammatoria e che proprio l’infiammazione possa contribuire al danno cartilagineo tipico della patologia» continuano gli autori ricordando che il trattamento con corticosteroidi, riducendo l’infiammazione, possa ridurre la progressione dell’osteoartrosi. Per verificare questa ipotesi i ricercatori hanno suddiviso i partecipanti in due gruppi, uno trattato con iniezioni intra-articolari del corticosteroide triamcinolone ogni 12 settimane per 2 anni e uno trattato con placebo (soluzione salina). «A conti fatti le analisi hanno dimostrato che il trattamento con corticosteroidi non ha ridotto la perdita di volume cartilagineo che al contrario è risultata maggiore con triamcinolone che con placebo» dice McAlindon precisando che la riduzione dello spessore della cartilagine è stato di 0,21 mm con corticosteroide e 10 mm con il placebo. Nemmeno il dolore è migliorato con il trattamento attivo. «Nonostante alcuni limiti legati al disegno dello studio e ai metodi utilizzati nell’analisi, i risultati ottenuti non ci consentono di raccomandare iniezioni intra-articolari di corticosteroidi in caso di osteoartrosi asintomatica del ginocchio» concludono gli esperti.
Jama 2017. Doi: 10.1001/jama.2017.5283
La manipolazione vertebrale è paragonabile ai Fans nel trattamento della lombalgia acuta
Secondo uno studio pubblicato su Jama, la terapia di manipolazione vertebrale in pazienti con lombalgia acuta è stata associata a modesti miglioramenti per quanto riguarda dolore e funzionalità, con danni muscolo-scheletrici minori temporanei.
Tra i trattamenti per il dolore acuto della schiena sono contemplati farmaci analgesici e rilassanti muscolari, terapia fisica, calore e terapia di manipolazione vertebrale (Smt), ma finora non vi sono state prove della superiorità di nessun metodo. «Il dolore lombare acuto è comune e la terapia di manipolazione vertebrale è una delle opzioni di trattamento» afferma Paul Shekelle, del West Los Angeles Veterans Affairs Medical Center negli Stati Uniti, autore principale dello studio, che poi aggiunge: «Studi clinici randomizzati e metanalisi hanno riportato conclusioni diverse riguardo l’efficacia di questa tecnica».
E proprio per valutare l’efficacia e i danni associati alla manipolazione vertebrale rispetto ad altre terapie non manipolative negli adulti con lombalgia acuta, i ricercatori quindi hanno condotto una revisione degli studi esistenti sull’argomento. Su 26 studi randomizzati e controllati ammissibili, 15 hanno offerto prove di qualità moderata che la manipolazione vertebrale abbia un’associazione statisticamente significativa con miglioramenti nel dolore, e 12 hanno fornito prove di qualità moderata di un’associazione statisticamente significativa con miglioramenti nella funzionalità. Nessun lavoro ha riferito di alcun evento avverso grave, anche se sono stati segnalati eventi avversi minori e transitori come aumento del dolore, rigidità muscolare, e mal di testa. Gli autori concludono che il beneficio della manipolazione vertebrale per la lombalgia acuta possa essere approssimativamente equivalente a quello dei farmaci antinfiammatori non steroidei (Fans).
«Se la manipolazione è efficace e sicura almeno quanto le cure convenzionali, potrebbe essere la scelta giusta per alcuni pazienti con dolore lombare acuto non complicato» afferma in un editoriale di commento Richard Deyo, della Oregon Health and Science University di Portland, che poi conclude: «Questa è un’area in cui una decisione ben informata da parte del paziente deve contare quanto le preferenze del medico».
Jama 2017. doi:10.1001/jama.2017.3086
Jama
Gomito del tennista: la chirurgia potrebbe non essere vantaggiosa
Secondo uno studio presentato allo Specialty Day della American Orthopaedic Society for Sports Medicine (Aossm) a San Diego in California, in caso di gomito del tennista un approccio chirurgico potrebbe non offrire un beneficio aggiuntivo ai pazienti. Martin Kroslak, dell’Orthopaedic Research Institute a Sydney, Australia, e colleghi hanno valutato in una sperimentazione randomizzata e in doppio cieco 13 pazienti sottoposti a un comune intervento chirurgico per rimuovere una parte degenerata del muscolo estensore radiale breve del carpo, rispetto a un gruppo di 13 individui che hanno ricevuto una incisione laterale sul gomito e nessuna ulteriore riparazione, trattamento considerato come placebo.
Tutti i pazienti soffrivano dei sintomi della patologia da più di sei mesi e avevano tentato almeno due trattamenti non chirurgici come terapia fisica, massaggi, agopuntura o tutori senza trarne sollievo. L’esito primario era rappresentato dalla frequenza della presentazione di dolore al gomito durante l’attività. I pazienti hanno compilato dei questionari, indicando sintomi quali la frequenza e la gravità del dolore con l’attività e a riposo, durante il sonno, nel raccogliere oggetti o facendo movimenti di torsione. Entrambi i gruppi hanno ricevuto lo stesso trattamento di riabilitazione, consistente in applicazione di ghiaccio, stretching e un programma di rinforzo entro due settimane dall’intervento. «I nostri dati mostrano che entrambi i gruppi hanno sperimentato miglioramenti significativi nel grado di dolore entro 26 settimane dopo l’intervento, e anche un miglioramento della frequenza del dolore con l’attività» commentano gli autori. «Inoltre, questi risultati sono stati coerenti o sono migliorati dopo 1-4 anni di follow-up, senza alcuna differenza significativa tra i due gruppi in qualsiasi momento». «La gestione gomito del tennista cronico è una sfida per una gran parte della popolazione attiva» spiega Kroslak che poi conclude: «La nostra ricerca mostra le difficoltà nel delineare un piano di trattamento per questi pazienti, e il continuo lavoro da fare per sviluppare approcci sia chirurgici che incruenti».
American Orthopaedic Society for Sports Medicine
Lombalgia, le nuove raccomandazioni in terapia dell’American College of Physicians
Le nuove linee guida per il trattamento della lombalgia appena pubblicate su Annals of Internal Medicine e firmate dagli esperti dell’American College of Physicians (Acp) consigliano di iniziare la cura del mal di schiena lombare acuto o subacuto con terapie non farmacologiche tra cui massaggi, agopuntura o manipolazioni. E se un farmaco è proprio necessario, medici e pazienti dovrebbero ricorrere in prima battuta ai farmaci antinfiammatori non steroidei (Fans) o ai miorilassanti. «I medici dovrebbero avvisare i loro pazienti che la lombalgia in genere migliora in modo Indipendente dalla cura» esordisce Nitin Damle, presidente dell’Acp. «Per questo bisognerebbe evitare di prescrivere test inutili nonché farmaci costosi e potenzialmente dannosi» aggiunge l’esperto, sottolineando in particolare che diversi studi hanno evidenziato l’inefficacia del paracetamolo nel dolore lombare rispetto al placebo. Lo stesso è avvenuto, sebbene gli studi fossero di bassa qualità, anche per gli steroidi sistemici, dimostratisi incapaci di migliorare sintomi della lombalgia acuta o subacuta. Anche nella forma cronica la Acp raccomanda a medici e pazienti di preferire inizialmente la terapia non farmacologica con esercizio fisico e riabilitazione, ma ricorrendo anche all’agopuntura, alla terapia cognitivo-comportamentale o alla manipolazione spinale.
Anche nei pazienti con mal di schiena cronico che hanno avuto una risposta inadeguata alla terapia non farmacologica gli esperti dell’American College of Physicians raccomandano il trattamento con Fans come terapia di prima linea. Se anche questi non funzionassero è opportuno ricorrere a tramadolo o duloxetina come farmaci di seconda linea. «Il ricorso agli oppiacei è consigliabile solo nei pazienti che non hanno risposto ad alcuno dei trattamenti sopra elencati e solamente se i potenziali benefici superano i rischi, compresi quelli derivati da dipendenza o sovradosaggio accidentale» conclude Damle.
Ann Intern Med. 2017. doi: 10.7326/M16-2367
La terapia occupazionale domiciliare non rallenta il declino fisico dei malati di Alzheimer
Dopo avere ipotizzato che due anni di terapia occupazionale svolta al domicilio potessero aiutare le persone con malattia di Alzheimer a ritardare la perdita di funzione fisica, i ricercatori dell’Indiana University Center for Aging Research hanno invece scoperto che il trattamento non ha alcuna efficacia significativa su funzioni quotidiane come camminare, mangiare, lavarsi e andare in bagno. «Questi risultati sottolineano da un lato il carico dei familiari nel gestire questo tipo di ammalati, e dall’altro la necessità di nuove strategie di supporto» esordisce Christopher Callahan, coautore dell’articolo e direttore dell’IU Center for Aging Research. Al trial randomizzato e controllato, appena pubblicato su Annals of Internal Medicine, hanno preso parte 180 pazienti ammalati di Alzheimer. «Tutti erano seguiti dai rispettivi caregivers, con un’assistenza che aveva ridotto i livelli di stress senza peraltro rallentare il declino della funzione fisica» scrivono i ricercatori, spiegando che i partecipanti sono stati randomizzati a ricevere o meno una terapia occupazionale domiciliare della durata di 24 mesi oltre alle consuete cure. «Ma al termine dei due anni di trattamento non è stata notata alcuna differenza significativa in confronto al gruppo di controllo in termini di riduzione del declino fisico» riprende Callahan. E aggiunge: «Si tratta di un risultato deludente rispetto a quanto precedentemente pubblicato sull’argomento da studi a breve termine che avevano invece suggerito un rallentamento della perdita di funzione fisica grazie alla terapia occupazionale». In assenza di cure per rallentare la progressione della malattia, gli autori sottolineano la necessità di un maggiore supporto ai caregivers, gravati dal perso dell’assistenza a familiari con demenza. «Servono anche modifiche alle abitazioni in termini di rimozione dei rischi di caduta rendendo più accessibili e sicuri bagni e cucine al fine di consentire ai pazienti con Alzheimer di rimanere in ambiente domestico e fuori dalle istituzioni il più al lungo possibile. «Modifiche relativamente onerose, ma con costi certamente minori della retta annuale in una casa di cura specializzata» concludono i ricercatori.
Ann Intern Med. 2016. doi: 10.7326/M16-0830
http://annals.org/aim/article/2588175/targeting-functional-decline-alzheimer-disease-randomized-trial
Distorsione caviglia, fisioterapia non migliora il recupero rispetto all’autogestione
La fisioterapia nei pazienti con semplici distorsioni della caviglia non ne favorisce il recupero rispetto all’autogestione domiciliare, secondo uno studio pubblicato sul British Medical Journal. «La gestione delle distorsioni alla caviglia ha costi finanziari considerevoli, e servono trattamenti alternativi per aiutare il recupero» esordisce Alice Aiken, professore di riabilitazione alla Queen’s University School of Rehabilitation Therapy di Kingston, in Canada, sottolineando che le distorsioni di caviglia sono tra le lesioni muscolo-scheletriche più comuni, e causano un elevato numero di visite al pronto soccorso. «La maggior parte sono distorsioni dei legamenti di grado lieve o moderato, gli standard clinici di trattamento non sono ben definiti e mancano prove definitive sul ruolo della fisioterapia» scrivono i ricercatori, che hanno svolto uno studio controllato per valutare i benefici della fisioterapia nelle distorsioni di caviglia. Al trial hanno preso parte 503 pazienti tra 16 e 79 anni, presentatisi con distorsioni lievi o moderate a uno dei due ospedali di Kingston tra il 2009 e il 2013 e randomizzati alla fisioterapia o all’automonitoraggio domiciliare secondo una serie di suggerimenti scritti e consegnati dal medico alla dimissione con raccomandazioni sulla protezione della caviglia, riposo, ghiaccio, applicazione di un bendaggio compressivo e uso di antidolorifici. E i risultati mostrano che nel 43% dei pazienti assegnati alla fisioterapia e nel 38% del gruppo di controllo non si era verificato alcun eccellente recupero dopo sei mesi.
E in un editoriale di commento, Chris Bleakley, della Ulster University nel Regno Unito, scrive: «Questo studio randomizzato è un’importante aggiunta all’evidenza disponibile sull’argomento, con ottimi punti di forza quali un protocollo robusto e di qualità con un’adeguata randomizzazione e valutazione in cieco degli esiti. Servono tuttavia future ricerche per identificare la dose ottimale e l’intensità di esercizio terapeutico da prescrivere nella gestione della distorsione di caviglia lieve o moderata».
Bmj. 2016. doi: 10.1136/bmj.i5650
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27852621
Bmj. 2016. doi: 10.1136/bmj.i5984
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27852567
Lombalgia cronica, il trattamento con placebo può essere sicuro ed efficace
Il trattamento con placebo nei pazienti con lombalgia cronica, fatto informandoli che sono stati posti in terapia con una pillola inattiva e perché questa scelta potrebbe essere utile, porta a una riduzione del dolore e della disabilità, secondo quanto emerge da un articolo pubblicato su Pain, la rivista ufficiale della International Association for the Study of Pain, Iasp. «Questo studio è il primo a dimostrare i potenziali benefici, clinicamente significativi, del trattamento con placebo prescritto senza inganno ai pazienti con lombalgia cronica» afferma la coautrice Claudia Carvalho dell’ISPA-Instituto Universitario di Lisbona. Al trial hanno preso parte 97 adulti con lombalgia da almeno tre mesi, randomizzati a tre settimane di trattamento con i consueti antidolorifici da soli o associati a placebo. «Ma a differenza del solito studio controllato in doppio cieco, i pazienti sapevano che stavano prendendo una pillola inattiva» scrivono i ricercatori, che hanno spiegato le ragioni dell’effetto placebo, sottolineando che questo tipo di cura può avere benefici clinicamente significativi forse dovuti a processi inconsci relativi alla partecipazione a uno studio e all’assunzione di pillole. Dopo tre settimane, anche ai pazienti inizialmente assegnati al consueto trattamento antalgico è stata offerta la possibilità di assumere placebo, e dai i risultati ottenuti emerge un’efficacia significativa del trattamento inattivo. «Complessivamente il placebo somministrato in aperto ha ridotto di circa il 30% il dolore e l’invalidità iniziali, e la sua efficacia è testimoniata anche dal fatto che i pazienti del gruppo di controllo, ossia quelli assegnati alla consueta terapia antalgica, hanno avuto miglioramenti analoghi dopo aver iniziato ad assumerlo» precisa la ricercatrice, aggiungendo che non ci sono stati effetti avversi in entrambi i gruppi. «I nostri dati suggeriscono che il placebo somministrato mettendone a conoscenza il paziente può essere un complemento sicuro ed efficace del trattamento per la lombalgia cronica» conclude Carvalho.
Pain. 2016. doi: 10.1097/j.pain.0000000000000700
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27755279
Nella lombalgia aspecifica l’imaging è superfluo, ma non prescriverlo è spesso difficile
La campagna Choosing Wisely (ossia “scegliere saggiamente”), mirata a migliorare la cura del paziente riducendo gli esami non necessari, elenca ben sette raccomandazioni che sconsigliano l’uso dell’imaging nei pazienti con lombalgia aspecifica. Ma ciò non vuol sempre dire che le intenzioni corrispondano alla realtà, almeno secondo uno studio appena pubblicato su Jama Internal Medicine coordinato da Erika Sears del Centro Veterans Affairs for Clinical Management Research di Ann Arbor, Michigan. «L’eccessivo utilizzo di esami diagnostici e trattamenti sta diventando un fenomeno sempre più diffuso e rilevante, ma nonostante i medici conoscano le linee guida che suggeriscono di non prescrivere certi esami in date situazioni, non sempre si sentono di applicarle integralmente» scrivono gli autori, che hanno analizzato i questionari compilati da 579 medici e infermieri durante un sondaggio online realizzato tra ottobre e dicembre 2014. L’intervista proponeva un’ipotetica donna di 45 anni con lombalgia aspecifica in assenza di segni o sintomi di allarme che chiedeva al medico di prescrivere una tomografia computerizzata (Ct) o una risonanza magnetica (Mri), chiedendo quali fattori potrebbero influenzare la decisione. Solo il 3,3 per cento dei medici ha risposto che il paziente avrebbe tratto beneficio dall’imaging, mentre il 77 per cento era convinto che questi esami avrebbero portato ad altri accertamenti o procedure inutili. Eppure, il 57,8 per cento dei medici si preoccupava che la paziente avrebbe reagito male alla mancata prescrizione, e il 25,8 per cento riteneva di non avere abbastanza tempo durante la visita per spiegare alla paziente i rischi e i benefici dell’imaging. Inoltre, poco più di un quarto dei medici sottolineava la possibilità che la mancata prescrizione potesse portare a una denuncia per malpractice. «Da questi risultati emerge che per ridurre il numero di esami a basso valore diagnostico prescritti nella lombalgia aspecifica serve rassicurare i medici e informare meglio i pazienti» conclude Sears.
Jama Intern Med. Published online October 17, 2016. doi:10.1001/jamainternmed.2016.6364
http://jamanetwork.com/journals/jamainternalmedicine/article-abstract/2569281
Frattura instabile caviglia: un tutore a stretto contatto efficace quanto la chirurgia
Tra gli anziani con una frattura instabile della caviglia, l’uso di una tecnica nota come close contact casting, che consiste nel posizionamento sotto il ginocchio di un tutore materiale plastico pressofuso con minima imbottitura, ha dato un esito funzionale a 6 mesi simile alla chirurgia, ma con una riduzione dei costi di intervento e meno complicazioni post-operatorie. Ecco i risultati di uno studio pubblicato su Jama e coordinato da Keith Willettdell’Università di Oxford, Regno Unito, che assieme ai colleghi ha randomizzato 620 adulti over 60 con frattura instabile della caviglia alla chirurgia (n=309) o al posizionamento del tutore (n=311), il cui calco è stato applicato in sala operatoria in anestesia generale o spinale da un chirurgo esperto. «Tra i 620 adulti, età media 71 anni, 74% donne, che hanno preso parte allo studio, il 19% dei soggetti inizialmente trattati con il tutore sono stati poi operati» scrivono gli autori, spiegando che a sei mesi la protesi ha comportato una prognosi funzionale della caviglia equivalente a quella ottenuta con la chirurgia. Ma non solo: il tasso di infezioni post-operatorie è stato maggiore con la chirurgia, 10% contro 1%, così come la percentuale di reinterventi successivi: 6% contro 1%. Il malconsolidamento radiologico, invece, è risultata più frequente nel gruppo trattato con il tutore rispetto alla chirurgia: 15% vs 3%. «Non ci sono state differenze significative in altri esiti secondari tra cui la qualità della vita, il dolore, il movimento della caviglia, la mobilità e la soddisfazione del paziente» concludono i ricercatori. «Questi risultati dimostrano che le fratture alla caviglia instabili subite da pazienti anziani possono essere trattate con successo senza la necessità di ricorrere a un intervento chirurgico» scrive in un editoriale di commento David Sanders della Western University London in Ontario, Canada, sottolineando tuttavia che molti pazienti inizialmente trattati con il close contact casting sono poi stati operati. «Servono dunque ulteriori studi che permettano di identificare i pazienti che non potranno beneficiare del tutore» conclude l’editorialista.
Jama 2016. doi: 10.1001/jama.2016.14719
http://jama.jamanetwork.com/article.aspx?doi=10.1001/jama.2016.14719
Jama 2016. doi:10.1001/jama.2016.14819
http://jama.jamanetwork.com/article.aspx?doi=10.1001/jama.2016.14819
Lesioni meniscali, l’efficacia dell’esercizio fisico non è inferiore all’artroscopia
Secondo uno studio randomizzato e controllato pubblicato sul British Medical Journal, l’esercizio è efficace al pari della chirurgia nei pazienti di mezza età con lesioni meniscali, tanto da poter essere considerato una valida opzione di trattamento. «Ogni anno circa due milioni di persone al mondo subiscono un’artroscopia per danni al menisco, con costi di diversi miliardi di dollari» esordisce Nina Jullum Kise, chirurga ortopedica al Martina Hansens Hospital di Sandvika in Norvegia, e prima autrice dell’articolo, aggiungendo che secondo le conoscenze attuali la chirurgia artroscopica del ginocchio offre scarsi benefici nella maggior parte dei casi. Così i ricercatori norvegesi e danesi hanno messo a confronto l’efficacia della procedura con quella dell’esercizio fisico in pazienti di mezza età con lesioni meniscali degenerative. A prendere parte allo studio sono stati 140 adulti, età media 50 anni, con lesioni meniscali degenerative diagnosticate con la risonanza magnetica in due ospedali pubblici e due cliniche di fisioterapia in Norvegia.
Metà dei pazienti ha partecipato a un programma di attività fisica della durata di 12 settimane (2-3 sedute ogni settimana) e l’altra metà è stata sottoposta ad artroscopia seguita da semplici esercizi quotidiani. Al termine del follow-up non è emersa alcuna differenza significativa tra i gruppi in termini di dolore, capacità funzionale e qualità della vita, mentre a tre mesi la forza muscolare era migliorata nel gruppo esercizio. «I nostri risultati dovrebbero incoraggiare medici e pazienti over 50 con lesioni meniscali degenerative e nessuna evidenza radiografica di gonartrosi a prendere in considerazione la terapia fisica strutturata e supervisionata come una valida opzione al trattamento chirurgico» conclude Kise.
E in un editoriale di commento Gordon Guyatt della McMaster University in Canada scrive: «In un panorama crescente di risorse limitate, ciò che non dovremmo fare è lasciare che la comunità ortopedica, gli amministratori ospedalieri e gli operatori sanitari ignorino i risultati di studi rigorosi come questo, continuando a usare procedure per cui non vi sono mai state prove convincenti di efficacia».
Bmj. 2016. doi: 10.1136/bmj.i3740
http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27440192
Bmj. 2016 Jul 20;354:i3934. doi: 10.1136/bmj.i3934
http://www.bmj.com/content/354/bmj.i3934.long
Pilates e dolore lombare: non vi sono prove certe di efficacia rispetto ad altri esercizi
Non vi sono prove conclusive che l’uso del pilates nel dolore lombare sia superiore ad altre forme di esercizio. Lo sostieneLeonardo Costa, ricercatore all’Università di San Paolo in Brasile e coautore su Spine di una revisione con metanalisi. Il metodo pilates è una tecnica di ginnastica psicofisica inventata dal trainer tedesco Joseph Pilates che la utilizzò a New York nel 1920 trovando da subito l’interesse di varie star e personalità di spicco, le quali iniziarono ad appassionarsi al metodo e a praticarlo con regolarità. Tra queste Katherine Hepburn e Lauren Bacall seguite più di recente da Madonna e Sarah Jessica Parker. Il pilates mira a sviluppare una migliore consapevolezza del corpo e a migliorare la postura con contrazioni isometriche dei muscoli responsabili della stabilizzazione della colonna vertebrale sia durante lo spostamento sia a riposo. I vantaggi del pilates includono miglioramenti nella coordinazione dei movimenti, nell’equilibrio, nella simmetria muscolare, nella propriocezione e nello stato di salute in generale.
Per verificarne gli effetti nei pazienti con lombalgia acuta, subacuta o cronica, i ricercatori hanno consultato i principali archivi biomedici tra cui CENTRAL, MEDLINE, EMBASE e CINAHL fino a marzo 2014, selezionando 126 studi randomizzati e controllati sull’argomento, di cui 10 sono stati inclusi nella revisione per un totale di 510 partecipanti. «Rispetto a un intervento minimo, il pilates riduce il dolore e la disabilità a breve e medio termine con evidenza bassa o moderata» sottolinea il ricercatore, precisando tuttavia che dagli studi analizzati non emerge con chiarezza se il pilates sia meglio di altri esercizi per il dolore a breve termine o par la disabilità. «In sintesi, non è possibile trarre conclusioni definitive o formulare raccomandazioni precise sull’efficacia del pilates nel controllo del dolore e della disabilità da lombalgia acuta, subacuta o cronica, pur non potendo escludere che il metodo sia più efficace di un intervento minimo» spiega Costa. E conclude: «La decisione di utilizzare il pilates per la lombalgia resta quindi una scelta del paziente».
Spine 2016. doi: 10.1097/BRS.0000000000001398
La riabilitazione respiratoria in terapia intensiva non riduce i tempi di degenza
In uno studio appena pubblicato su Jama, Peter Morris della University of Kentucky a Lexington, e coautori hanno analizzato i risultati ottenuti dal trattamento riabilitativo dell’insufficienza respiratoria acuta svolto in terapia intensiva, scoprendo che in questo caso la pneumo-riabilitazione non riduce i tempi di degenza. «L’insufficienza respiratoria acuta si associa a un peggioramento della mortalità nonché a un prolungamento della morbilità, con compromissione della funzione fisica e della qualità di vita per molti sopravvissuti» esordisce il ricercatore, sottolineando che gli interventi diretti ad aumentare il lavoro respiratorio, attuati mediante procedure riabilitative standard svolte nelle unità di terapia intensiva, hanno lo scopo di rinforzare i muscoli respiratori e di migliorare la funzione fisica.«Tali interventi potrebbero anche ridurre i tempi di degenza, sebbene i dati sull’argomento siano insufficienti e contraddittori» riprende l’autore, che assieme ai colleghi ha voluto verificare se la partecipazione dei pazienti ricoverati per insufficienza respiratoria a un programma pneumo-riabilitativo svolto da fisioterapisti in terapia intensiva fosse effettivamente associata a una riduzione dei tempi di degenza (Los) e a un miglioramento della funzione fisica. Allo scopo sono stati arruolati 300 pazienti in ventilazione meccanica assegnati in modo casuale al trattamento riabilitativo oggetto di studio o alle cure consuete, e seguiti per sei mesi. I pazienti nel gruppo riabilitazione hanno ricevuto il trattamento giornaliero fino al momento della dimissione. Al termine del follow-up i ricercatori hanno scoperto che la degenza media nel gruppo di studio era di 10 giorni, a fronte del medesimo intervallo anche nel gruppo di controllo. Dati sovrapponibili anche in termini di durata della ventilazione o del soggiorno in terapia intensiva. «I nostri dati non supportano alcuna efficacia in termini di riduzione della degenza e di miglioramento dello stato funzionale nei pazienti sottoposti a riabilitazione respiratoria in terapia intensiva» conclude Morris.
Jama 2016. doi:10.1001/jama.2016.7201
http://jama.jamanetwork.com/article.aspx?doi=10.1001/jama.2016.7201
Nell’artrosi del ginocchio il Tai Chi è efficace come la fisioterapia
Uno studio apparso sugli Annals of Internal Medicine conferma che l’antica pratica cinese del Tai Chi – nata come arte stile interno delle arti marziali ma diffusosi in in occidente come forma di ginnastica – è efficace anche come forma di medicina preventiva per l’artrosi del ginocchio. Il gruppo diretto da Chenchen Wang, della Tufts University di Boston, Massachusetts, ha condotto un trial multicentrico su circa 200 ultraquarantenni con artrosi del ginocchio, che sono stati assegnati con procedura randomizzata a due gruppi, sottoposti a due sessioni settimanali di fisioterapia per sei settimane (seguite da esercizi a casa per altre sei) oppure a due sessioni settimanali di Tai Chi, per dodici settimane. Il risultato al termine delle 12 settimane ha visto un significativo miglioramento alla scala per la misurazione del dolore, calato in entrambi i gruppi: sulla scala di 500 punti è sceso in media di 167 punti tra le persone che hanno svolto la ginnastica Tai Chi rispetto ai 143 di quelle sottoposte a fisioterapia, con una differenza non significativa tra i due gruppi, anche se il Tai Chi ha mostrato una maggiore efficacia nel ridurre la frequenza di depressione e nel migliorare i punteggi di qualità della vita. I benefici sono risultati ancora presenti, in entrambi i gruppi, a un anno dall’intervento. La conclusione dei ricercatori è chiara: «Il Tai Chi standardizzato dovrebbe essere considerato un’opzione terapeutica efficace per l’artrosi del ginocchio».
Ann Intern Med. Published online 17 May 2016 doi:10.7326/M15-2143
http://annals.org/article.aspx?articleid=2522435
Nei ragazzi con scoliosi il busto scongiura l’intervento
Il busto migliora la scoliosi dell’adolescente riducendo il rischio di chirurgia correttiva alla colonna, con benefici proporzionali all’uso dell’ortesi. Ecco, in sintesi, quanto conclude Braist, Bracing in Adolescent Idiopathic Scoliosis Trial, uno studio prospettico svolto in 25 centri canadesi e statunitensi e pubblicato sul New England Journal of Medicine. «La scoliosi idiopatica dell’adolescente è una curvatura laterale della colonna che supera i 10 gradi con rotazione vertebrale» spiega Matthew Dobbs, ortopedico alla Washington University School of Medicine e coautore dell’articolo. Considerando che la scoliosi colpisce il 3% dei bambini sotto i 16 anni, solo lo 0,4% di essi hanno bisogno di terapia. Le forme con oltre 50 gradi di deviazione, in particolare, hanno un elevato rischio di peggioramento anche in età adulta, ponendo quasi sempre indicazione chirurgica. «Negli Stati Uniti ci sono stati nel 2009 più di 3.600 ricoveri per chirurgia vertebrale su scoliosi idiopatica dell’adolescente, i cui costi totali, circa 514 milioni di dollari, sono secondi solo a quelli per l’intervento di appendicite nei bambini tra 10 e 17 anni di età» spiega l’ortopedico, sottolineando che il trattamento con rinforzi rigidi, cioè l’applicazione di un’ortesi toracolombosacrale, è il trattamento incruento più comune per prevenire l’accentuazione della curva scoliotica. «L’obiettivo dei busti è di contrastare il disallineamento della colonna con differenti pressioni all’interno del tutore, ma l’effetto specifico dell’ortesi toracolombosacrale sulla curva di progressione e sul tasso di chirurgia è rimasto finora poco chiaro» riprende Dobbs, spiegando che l’obiettivo del Braist era proprio questo: verificare l’efficacia del bustino rispetto alla semplice osservazione clinica nel prevenire la progressione della curva a 50 gradi o più, evitando l’intervento. E i dati dimostrano l’ipotesi, visto che lo studio è stato interrotto anzitempo a causa del significativo tasso di successo del trattamento: 72% contro un modesto 48% della sola osservazione clinica.
http://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa1307337
Caschi e paradenti non proteggono gli sportivi
Possono aiutare a prevenire alcuni tipi di lesioni alla faccia e alla testa, ma non ci sono evidenze che caschi e paradenti tengano lontani i traumi cranici, anzi potrebbero addirittura favorirli invogliando i giocatori a prendere rischi maggiori. Lo dice un documento pubblicato nella sezione Injury prevention and health protection del British journal of sports medicine, riscritto e approvato nell’ambito della quarta Conferenza internazionale sulla commozione cerebrale nello sport, tenutasi a Zurigo, in Svizzera, lo scorso novembre. Durante la 2 giorni di Zurigo, 32 ricercatori da tutto il mondo hanno fatto il punto sulla concussione, una condizione che, se non trattata in modo appropriato, può dare luogo a danni neurologici a lungo termine, soprattutto in sport come calcio, rugby, hockey su ghiaccio, equitazione, sci e boxe. Il Consensus statement on concussion in sport, questo il nome del documento, è la quarta revisione aggiornata di raccomandazioni scritte nel 2001 a Vienna, e fornisce le indicazioni su come riconoscere tempestivamente e trattare i casi di commozione cerebrale sulla base delle più recenti evidenze scientifiche. In particolare, queste linee guida sono rivolte ai medici dello sport e rappresentano un tentativo di fornire loro indicazioni pratiche su come valutare e trattare i traumi cerebrali, con particolare riferimento al tempo necessario prima che il giocatore ritorni in campo. Il secondo obiettivo del documento, che ha avuto anche il supporto di diverse organizzazioni sportive, come la Fifa o la commissione olimpica internazionale, è stato quello di creare consapevolezza verso questo tema delicato nel pubblico generale. In questo senso sono stati inclusi una sezione di domande-risposte, suggerimenti di ordine medico-legale e sulla prevenzione del trauma, oltre a uno strumento tascabile utile a riconoscere i sintomi del trauma cranico. «La definizione di commozione cerebrale non prevede necessariamente una perdita di coscienza» precisano Mark Aubry, della Federazione Internazionale di Hockey su ghiaccio,e colleghi firmatari. «I sintomi possono andare dal generico mal di testa alla perdita di memoria, dall’irritabilità al disturbo del sonno o al rallentamento dei tempi di reazione». Inoltre, c’è anche un focus sui bambini, che «non dovrebbero tornare a giocare il giorno stesso del trauma perché, in genere, richiedono tempi di ripresa più lunghi rispetto agli adulti».
http://bjsm.bmj.com/content/47/5/250.extract
Fratture post-menopausa hanno alto impatto su qualità vita
Uno studio internazionale su 50.461 donne in post-menopausa evidenzia un elevato impatto delle fratture non femorali e non vertebrali (Nhnv: non-hip, non-vertebral) sulla qualità della vita e suggerisce l’importanza di mettere in atto misure di prevenzione. A fronte di crescenti evidenze dell’aumento della morbilità e dei costi sanitari associati a queste fratture, gli autori ne hanno analizzata l’incidenza durante un periodo di un anno, distinguendo tra fratture Nhnv maggiori (bacino/gamba e spalla/braccio) e minori (polso/mano, caviglia/piede costola/clavicola). Le donne partecipanti allo studio hanno avuto complessivamente 1.822 fratture; nel 57% dei casi Nhnv minori e nel 26% Nhnv maggiori rispetto alle percentuali molto più contenute delle fratture a carico della colonna vertebrale (10%) e del femore (7%). La qualità della vita connessa alla salute è stata misurata attraverso lo strumento EuroQol EQ-5D, che ha mostrato un effetto negativo più marcato delle fratture spinali, seguite dalle Nhnv maggiori. Queste due tipologie hanno comportato i maggiori problemi in termini di mobilità e le fratture spinali hanno anche portato un minor grado di autonomia, più limitazione nelle attività e più dolore. Il deterioramento nella funzionalità fisica e nello stato generale di salute è stato superiore nelle fratture vertebrali e femorali. Nonostante queste fratture abbiano un impatto superiore, gli autori sottolineano che, anche in ragione della loro elevata frequenza, le fratture non femorali e non vertebrali richiedono una maggiore attenzione e prevenzione nell’ambito della cura delle persone con osteoporosi.
Osteoporos Int, 2012; 23(12):2863-71
Deambulazione predice cadute post-ictus subacuto
Un gruppo di ricercatori belgi, del dipartimento di scienze della riabilitazione e di fisioterapia dell’università di Ghent, è riuscito a identificare i pazienti affetti da ictus subacuto che sono a maggior rischio di cadute esaminando le caratteristiche della deambulazione attraverso la gait analysis. Oltre all’analisi single task, per la quale è stato chiesto ai pazienti semplicemente di camminare alla loro velocità abituale, è stata effettuata una valutazione mentre si chiedeva loro di svolgere, mentre camminavano, un compito secondario (dual task). In questa seconda modalità, si è misurata la capacità dei pazienti, durante la deambulazione, di parlare in modo fluente, di svolgere semplici operazioni aritmetiche o di enumerare il maggior numero possibile di animali. Per la sperimentazione gli autori hanno arruolato 32 pazienti con ictus subacuto in grado di camminare in modo indipendente, con o senza ausili per la deambulazione. Diciotto di loro (il 56,3%) sono caduti, dieci (31,3%) una volta sola e gli altri otto (25,0%) più volte. Dopo aver effettuato diversi tipi di misurazione, gli studiosi fiamminghi hanno identificato in particolare due parametri che hanno caratterizzato questi pazienti rispetto a coloro che non sono caduti: un’andatura a passi più brevi e una lunghezza ridotta del passo non paretico. Queste caratteristiche costituiscono dunque un fattore predittivo di cadute nella categoria di pazienti esaminata.
Arch Phys Med Rehabil, 2012 Nov 24. [Epub ahead of print]
Terapia fisica in gonartrosi: prove deboli di efficacia
Un team di ricercatori della University of Minnesota, in una revisione sistematica della letteratura, ha ricavato evidenze scientifiche piuttosto deboli riguardo all’efficacia degli interventi di terapia fisica sulla riduzione del dolore dovuto a osteoartrite del ginocchio. Gli autori hanno individuato 193 studi randomizzati controllati, pubblicati sulle riviste scientifiche dal 1970 a oggi e ne hanno analizzato i risultati esaminando i tipi di intervento e gli outcome clinici ottenuti in termini di riduzione del dolore e della disabilità fisica e di miglioramento delle funzionalità fisiche. In 11 studi, si sono avute evidenze di modesta qualità dell’efficacia degli esercizi aerobici sulla disabilità e in tre degli esercizi acquatici; una riduzione del dolore e una migliore funzionalità sono state associate in 19 studi agli esercizi aerobici, in 17 studi ad attività fisiche mirate al rafforzamento muscolare e in 6 a trattamenti di ultrasonografia. Diversi trial randomizzati controllati hanno in particolare documentato miglioramenti clinicamente rilevanti della pratica aerobica, ma anche della ginnastica in acqua e di esercizi di rafforzamento muscolare, nel contrastare dolore e disabilità, mentre altri tipi di intervento non hanno invece evidenziato benefici sostenuti nel tempo. Gli effetti avversi delle terapie fisiche sono stati molto rari e difficilmente tali da imporre un’interruzione del trattamento.
Ann Intern Med, 2012; 157(9):632-44
Modelli predittivi di evoluzione della lombalgia
Dopo aver individuato attraverso i registri elettronici 4.477 pazienti trattati per lombalgia acuta e cronica in 17 centri del servizio sanitario nazionale spagnolo, un team di ricercatori ha sviluppato un modello predittivo per valutare le probabilità che un paziente migliori le proprie condizioni, in base a una serie di fattori. In due controlli effettuati a distanza di tre mesi, gli autori hanno preso in considerazione numerose variabili: sesso, età, tipo di lavoro svolto, durata e gravità della sintomatologia dolorosa, l’estensione del dolore agli arti inferiori, grado di disabilità, evidenze di esami diagnostici per immagine e trattamenti ricevuti durante il periodo dello studio. Sulla base dei dati analizzati, sono stati poi predisposti tre diversi modelli di regressione logistica multivariata con l’obiettivo di prevedere i miglioramenti a tre mesi del mal di schiena, del dolore alle gambe e della disabilità. Tutti i modelli hanno mostrato una buona capacità predittiva. I fattori correlati a maggiori probabilità di miglioramento sono stati: il non essere stati sottoposti a chirurgia lombare, il trattamento con neuro-riflessoterapia e, per ciascun modello, un più alto valore alla baseline della variabile considerata e un valore più basso delle altre (per esempio, più mal di schiena, meno disabilità e meno dolore alle gambe alla baseline si associano a un più probabile miglioramento del mal di schiena). Altri fattori predittivi di miglioramento sono stati: per la lombalgia, una breve durata del dolore; per il male alle gambe, non aver ricevuto elettromiografia; per la disabilità, breve durata del dolore, l’assenza di degenerazione discale, essere stati trattati con miorilassanti e non con oppioidi.
Spine J, 2012 Nov 6. [Epub ahead of print]
Immobilità in Bpco aumenta rischio tromboembolismo venoso
I pazienti affetti da malattia polmonare cronica ostruttiva presentano un rischio maggiore di decesso durante l’ospedalizzazione ed entro 30 giorni dalla diagnosi di tromboembolismo venoso (Tev). L’immobilizzazione in questi soggetti è un fattore di rischio per outcome avversi. Lo si apprende da uno studio del Brigham and Women’s hospital della Harvard medical school a Boston. Coordinati da Gregory Piazza, gli autori hanno analizzato le caratteristiche cliniche, la profilassi, il trattamento e gli outcome di 2.488 pazienti con tromboembolismo venoso, di cui 484 (il 19,5%) avevano sofferto di broncopneumopatia cronica ostruttiva a differenza dei restanti 2004 (80,5%). I primi erano mediamente più anziani, con un’età media di 68 anni rispetto ai 63 dell’altro gruppo, presentavano più spesso un’insufficienza cardiaca (35,5% contro 12,9%) ed erano maggiormente costretti a immobilità (53,5% contro 43,3%). Tra i pazienti con malattia polmonare cronica ostruttiva si è avuto una maggiore mortalità ospedaliera, con una percentuale di decessi del 6,8% rispetto al 4%, e più rapidamente, ovvero entro 30 giorni dalla diagnosi di tromboembolismo venoso nel 12,6% dei casi, quasi il doppio rispetto al 6,5% dei soggetti di controllo. La maggiore frequenza di profilassi per il tromboembolismo venoso non è servita a ridurre la mortalità ai livelli dei soggetti senza broncopneumopatia cronica ostruttiva e l’immobilità ha invece raddoppiato sia il rischio di decesso in ospedale che di decesso nei 30 giorni successivi alla diagnosi di tromboembolismo venoso.
Am J Med, 2012; 125(10):1010-8
Protesi rivestimento d’anca: fallimento dipende dal diametro
Un’analisi dei registri ortopedici di Inghilterra e Galles ha mostrato che le protesi di rivestimento d’anca negli uomini con teste femorali di grande diametro hanno una sopravvivenza simile alle altre opzioni chirurgiche, ma con piccoli diametri la sopravvivenza è inferiore e lo stesso avviene nelle donne, indipendentemente dal diametro della testa femorale. Le protesi di rivestimento, che permettono di conservare tutta o parte la testa femorale, si sono affermate come alternativa alla sostituzione totale d’anca soprattutto per i pazienti più giovani, con dimensioni variabili in modo da adattarsi alla testa del femore. Tra il 2003 e il 2010 gli autori dello studio hanno individuato i dati relativi a 434.560 interventi primari di sostituzione protesica d’anca, di cui 31.932 effettuati con protesi di rivestimento. Il primo risultato è che nelle donne questa opzione si è associata a una sopravvivenza dell’impianto inferiore rispetto alle protesi tradizionali: le percentuali di revisione nei cinque anni successivi all’intervento primario in donne di 55 anni è stata dell’8,3% per diametri della testa protesica di 42 mm e del 6,1% per diametri di 46 mm rispetto all’1,5% registrato in caso di protesi cementata con accoppiamento metallo-polietilene e diametro di 28 mm. Anche negli uomini con piccole teste femorali si sono avuti risultati negativi: in caso di intervento a 55 anni, la probabilità di revisione entro i cinque anni è stata del 4,1% con diametri protesici di 46 mm e del 2,6% con diametri di 54 mm, contro l’1,9% dell’intervento tradizionale. Solo negli uomini con testa femorale più grande le percentuali di fallimento sono risultate simili rispetto alla protesi totale.
Lancet, 2012 Oct 2. [Epub ahead of print]
Lesioni al gomito, risonanza con magnete apre prospettive
Secondo uno studio effettuato dall’università di Toronto insieme al Centro di Medicina atletica di Chicago, né la risonanza magnetica (Rm) né l’artrografia mediante risonanza magnetica (Arm) risultano molto efficaci nel rilevare le lesioni alla cartilagine del gomito mentre si nutrono speranze per la risonanza con magnete ad alta intensità di campo. I ricercatori canadesi e statunitensi hanno arruolato consecutivamente 31 soggetti con diagnosi di lesione articolare al gomito, con dolore articolare e limitazioni funzionali. Ogni paziente è stato sottoposto a Mri o Mra con magnete a 1,5 Tesla e poi a ispezione artroscopica allo scopo di individuare lesioni condrali in quattro aree: capitello, radio, troclea e ulna. Sensibilità, specificità, valore predittivo positivo e negativo e accuratezza dei test diagnostici sono stati valutati dalle immagini Rm e poi da queste confrontate con il gold standard, ovvero gli esiti artroscopici. La Rmi ha mostrato un’accuratezza del 45% per le lesioni condrali del radio, 65% per il capitello radiale, 20% per l’ulna e 30% per la troclea omerale. La Rma si associa a valori i molto simili: 45% per le lesioni nella regione del radio, 64% per il capitello, 18% per l’ulna e 27% per la troclea. Le due tecniche diagnostiche non hanno evidenziato la superficie intra-articolare con la stessa accuratezza dell’artroscopia, ma gli autori dello studio confidano che si possa ottenere una superiore accuratezza grazie ai magneti da 3 Tesla.
Clin J Sport Med, 2012; 22(5):403-7
Lesioni ischemiche silenti post-ictus predicono recidiva
Negli adulti di età inferiore ai 50 anni colpiti per la prima volta da ictus, le lesioni ischemiche silenti sono comuni e, secondo un trial clinico francese condotto presso l’ospedale universitario di Rouen, costituiscono un fattore in grado di predire una recidiva di ictus. Si è trattato di uno studio retrospettivo condotto tra il 2002 e il 2009 su un campione di 170 pazienti controllati attraverso le immagini della risonanza magnetica cerebrale. Le lesioni ischemiche silenti sono state definite in presenza di aree focali bianche (iperintense) nelle immagini in T2 uguali o superiori ai 3 mm senza corrispondenti sintomi focali, mentre la leucoaraiosi è stata definita da iperintensità focale, multifocale o confluente nelle sequenze pesate in T2. La risonanza magnetica ha evidenziato lesioni ischemiche silenti in 48 dei pazienti selezionati per lo studio (il 28,2%), mentre nessun soggetto ha mostrato leucoaraiosi isolate. Le lesioni ischemiche cerebrali silenti si sono associate a ipertensione, a emicrania con aura e a patologie cardiovascolari. Undici di questi pazienti (il 23%) hanno avuto una recidiva di ictus durante un follow-up che si è protratto mediamente per 25 mesi; invece, tra i soggetti che non presentavano lesioni ischemiche silenti, le recidive sono state molto meno frequenti (6,5%).
Neurology, 2012; 79(12):1208-14
Attività aerobica riduce sovrappeso e rischi in bambini obesi
In uno studio su 222 bambini sedentari sovrappeso od obesi, un programma di 20 o 40 minuti di esercizi aerobici ha mostrato, dopo 13 settimane, un miglioramento della fitness, benefici riguardo all’insulino-resistenza e all’adiposità generale e viscerale, indipendentemente dal sesso. I partecipanti, dall’età media di 9,4 anni, per il 42% maschi, per il 58% di colore e per la maggior parte obesi (85%), sono stati arruolati in 15 scuole pubbliche in Georgia, negli Stati Uniti. Suddivisi in tre gruppi, 71 bambini hanno ricevuto un training aerobico della durata di 20 minuti al giorno per cinque giorni alla settimana, 73 hanno praticato gli stessi esercizi per 40 minuti giornalieri, mentre i rimanenti 78 hanno continuato la loro normale attività fisica. Il programma è durato 13 settimane, al termine delle quali si sono rilevate le differenze riguardo a diversi fattori. L’area sotto la curva dell’insulina (indicativa di rischio di diabete) nel gruppo di bambini sottoposti a esercizi di durata maggiore, si è ridotta mediamente di 3,56 punti rispetto al gruppo di controllo, mentre si è avuto una riduzione media di 2,96 tra i bambini inseriti nel programma meno intenso. Anche il grasso corporeo e il grasso viscerale hanno mostrato variazioni differenti in relazione al diverso dosaggio di esercizi fisici praticati, con effetti più marcati associati al programma di 40 minuti giornalieri. Invece, gli effetti sulla fitness sono stati simili nei due gruppi di intervento e comunque positivi rispetto ai bambini che non avevano ricevuto il training aerobico.
Dopo protesi anca o ginocchio sale rischio infarto
È stato condotto da un team di ricercatori danesi e olandesi uno studio che ha valutato il rischio di infarto miocardico dopo un intervento di artroprotesi d’anca o di ginocchio, trovandolo significativamente aumentato nei 15 giorni successivi all’intervento. Il trial, di tipo retrospettivo, si è avvalso dei registri ortopedici nazionali della Danimarca, che hanno permesso agli autori di disporre dei dati relativi a 95.227 pazienti sottoposti a sostituzione protesica d’anca o ginocchio dall’inizio del 1998 fino alla fine del 2007. Tre gruppi di controllo, formati da soggetti non protesizzati, sono stati scelti in modo da garantire un’omogeneità con i pazienti operati, dal punto di vista dell’età, del sesso e della provenienza geografica. L’analisi ha mostrato che, dopo l’intervento d’anca, il rischio di infarto miocardico è aumentato per due settimane in maniera consistente rispetto alle persone inserite nei gruppi di controllo (hazard ratio/Hr aggiustato: 25,5). Questo rischio si è mantenuto elevato fino alla sesta settimana (Hr aggiustato: 5,05) per poi diminuire fino a riportarsi ai livelli della baseline. I pazienti che hanno ricevuto una sostituzione protesica di ginocchio hanno corso un rischio ancora superiore nei primi 15 giorni (Hr aggiustato 30,9) che però si è riportato a valori normali fin dalla terza settimana. Il rischio assoluto di infarto è stato dello 0,51% nei pazienti operati con protesi d’anca e dello 0,21% in quelli operati al ginocchio. «La valutazione del rischio di infarto miocardico» concludono gli autori «dovrebbe essere presa in considerazione durante le prime 6 settimane successive a sostituzione protesica d’anca e nel corso delle prime 2 settimane dopo intervento al ginocchio».
Arch Intern Med, 2012; 172(16):1229-35
Agopuntura, efficacia modesta contro il dolore cronico
Una revisione sistematica della letteratura evidenzia l’efficacia dell’agopuntura come trattamento contro il dolore cronico ma sottolinea al contempo come la differenza rispetto all’agopuntura placebo (sham) sia piuttosto modesta: ciò fa pensare che una parte importante dei suoi effetti sia dovuta alla semplice applicazione degli aghi. La meta-analisi, che è frutto di una collaborazione tra ricercatori inglesi, tedeschi e americani, si è orientata all’esame di quattro condizioni antalgiche – dolore a collo e schiena, osteoartrosi, mal di testa cronico e dolore alla spalla – e ha portato a individuare 29 studi randomizzati e controllati, su un insieme complessivo di 17.922 pazienti. L’analisi primaria, che ha incluso tutti gli Rct eleggibili, ha dimostrato la superiorità dell’agopuntura in tutte le condizioni considerate, rispetto sia alla sham sia all’assenza di trattamento; tale superiorità si è mantenuta anche dopo l’esclusione di alcuni studi impostati in modo da portare a un risultato favorevole per l’agopuntura. Nel sottolineare l’importanza per la pratica clinica della dimostrazione di maggiore efficacia di questa antica terapia cinese rispetto all’agopuntura sham, gli autori ammettono però che questa differenza è minima. «Tuttavia» affermano «medici e pazienti non devono scegliere tra agopuntura tradizionale e sham, ma se rivolgersi a un agopuntore oppure no: in questo caso la maggiore efficacia nel combattere il dolore cronico rispetto al non trattamento è significativa ed è confermata dagli studi scientifici pubblicati finora».
Arch Intern Med, 2012 Sep 10:1-10. [Epub ahead of print]
Fisioterapia utile in attesa di protesi d’anca
Una revisione sistematica della letteratura condotta da due studiosi australiani indica che interventi mirati basati su esercizi fisioterapici sono in grado di ridurre il dolore e migliorare la funzionalità nei pazienti in attesa di essere sottoposti a sostituzione d’anca, ma non in quelli che attendono l’intervento di artroprotesi di ginocchio. La ricerca ha portato a individuare, nei principali database scientifici, 18 trial randomizzati o quasi-randomizzati che hanno soddisfatto i criteri di inclusione scelti: avevano infatti messo a confronto gruppi di intervento con gruppi di controllo, tutti composti da pazienti destinati a essere sottoposti a sostituzione d’anca o di ginocchio. Dolore, forza muscolare, velocità nella deambulazione e funzionalità fisica percepita sono state le principali variabili misurate negli studi. Per i pazienti in attesa di sostituzione artroscopica di ginocchio, la meta-analisi dei dati non ha permesso di individuare alcuna differenza significativa nella sintomatologia dolorosa o nella funzionalità tra chi ha praticato esercizi e coloro che invece erano stati inseriti nei gruppi di controllo. Invece, nei partecipanti sottoposti a un programma di esercizi prima dell’intervento di artroprotesi d’anca si è avuta sia una riduzione del dolore che un miglioramento funzionale.
Arch Phys Med Rehabil, 2012 Sep 4. [Epub ahead of print]
Pro e contro delle protesi d’anca cementate e non
Uno studio che giunge dall’università di Birmingham mostra che le protesi d’anca non cementate si associano a un aumento del rischio di revisioni, ma anche a una piccola, ma significativa, riduzione del rischio di decesso, rispetto alle protesi cementate. È una delle ricerche frutto della mole di dati contenuti nel registro nazionale ortopedico inglese, a cui i ricercatori hanno acceduto per analizzare la mortalità e le tempistiche degli interventi primari e secondari di sostituzione d’anca in 275.000 pazienti. Data la notevole eterogeneità dei soggetti, si è resa necessaria un’analisi multivariata che tenesse conto dei possibili fattori confondenti. Per quanto riguarda la mortalità, il risultato finale indica un rapporto di rischio (hazard ratio) di 1,11 tra i pazienti sottoposti a sostituzione d’anca con protesi cementate rispetto alle non cementate; il rischio di un intervento di revisione è stato però inferiore, con un hazard ratio di 0,53. Gli autori spiegano però che queste cifre si traducono in piccole differenze assolute. Sono state anche analizzate nello specifico le protesi di rivestimento Birmingham che, nell’analisi multivariata ristretta ai pazienti di sesso maschile, si sono associate a un tasso di mortalità più basso rispetto al complesso delle protesi non cementate e quindi, a maggior ragione, anche rispetto alle protesi cementate; anche in questo caso, tuttavia, le protesi cementate si sono mostrate migliori nel ridurre la percentuale degli interventi di revisione.
Protesi d’anca: sì ceramica-ceramica, no metallo-metallo
Le protesi articolari totali d’anca metallo-metallo determinano una scarsa sopravvivenza dell’impianto a confronto di altre opzioni e non dovrebbero essere utilizzate. Tutti i pazienti con accoppiamenti di questo tipo andrebbero attentamente monitorati, in particolare le giovani donne con innesto di teste femorali di grande diametro. L’accoppiamento ceramica-ceramica di ampio diametro sembra invece funzionare bene e pertanto se ne caldeggia l’uso continuato. È questo, secondo Alison J. Smith dell’università di Bristol (UK) e colleghi, l’esito dell’analisi di un’ampia casistica, tratta dal National Joint Registry dell’Inghilterra e del Galles, relativa a 402.501 interventi di artroplastica primaria d’anca avvenuti tra il 2003 e il 2011, di cui 31.171 con impianto metallo-metallo. In tale periodo l’operazione di sostituzione totale d’anca ha fatto registrare elevati tassi di fallimento. L’insuccesso è apparso correlato alla dimensione della testa femorale, tanto più precoce quanto maggiore era il diametro della testa stessa. I tassi di revisione a 5 anni nelle giovani donne si sono attestati a 6,1% nel caso di impianti metallo-metallo da 46 mm, da confrontare all’1,6% per le protesi metallo-polietilene da 28 mm. All’opposto, nel caso delle articolazioni ceramica-ceramica le dimensioni più elevate della testa sono risultate associate ad aumentata sopravvivenza dell’impianto, con un tasso di revisione a 5 anni del 3,3% con 28 mm e del 2% con 40 mm in uomini di 60 anni.
Lancet, 2012; 379(9822):1199-204
Artrosi dell’anca: sostituzione totale vs resurfacing
Nei pazienti affetti da grave artrosi dell’anca, non si nota una differenza di funzionalità tra quanti, a distanza di un anno dall’intervento, sono stati sottoposti ad artroplastica totale (completa sostituzione della testa e del collo femorali) oppure a resurfacing (sostituzione della sola superficie articolare della testa femorale, con mantenimento del collo del femore). Restano incerti gli outcome a lungo termine. È quanto deriva dall’esperienza di Matthew L. Costa, dell’università di Warwick, a Coventry (UK), e della sua équipe, autori di una ricerca condotta su 126 pazienti di età superiore a 18 anni con grave artrosi dell’anca e considerati eligibili al resurfacing, allo scopo di confrontare l’efficacia clinica ed economica di questa tecnica con quella più tradizionale. Il team ha assegnato, in modo randomizzato, 60 pazienti all’effettuazione del resurfacing, e 66 all’artroplastica totale. Come principali misure di outcome si è assunta la funzionalità dell’anca a 12 mesi dopo la chirurgia, valutata con gli score Oxford e Harris. L’analisi intention-to-treat non ha evidenziato differenze nella funzione dell’articolazione tra i 2 gruppi a 12 mesi, e i punteggi Oxford e Harris riferiti all’anca sono apparsi sostanzialmente sovrapponibili. Ciò nonostante, affermano gli autori dello studio, non si può escludere con certezza che vi possano essere differenze clinicamente significative nella funzionalità dell’anca nel breve termine. Infine, seppure non si siano registrate differenze nei tassi di complicanze tra i due gruppi di trattamento, si è riscontrato un maggiore numero di complicanze in sede di ferita chirurgica nel gruppo artroplastica totale, mentre in quello resurfacing si sono avuti più eventi tromboembolici.
Instabilità post-artroprotesi d’anca: riconoscere la causa
L’instabilità è una delle principali cause di fallimento degli interventi di artroprotesi totale d’anca: nel 21% dei casi è dovuta a più fattori eziologici e una loro conoscenza è essenziale per un piano di trattamento efficace. Lo afferma un gruppo di ricercatori guidati da Glenn D. Wera, del Case Western Reserve University di Cleveland, in Ohio, che ha analizzato 75 pazienti sottoposti a interventi di revisione, classificandoli secondo sei eziologie principali di revisione. L’insufficienza degli abduttori dell’anca è stata la più comune, con un percentuale del 36% ed è risultata la più difficile da trattare. Errori di posizionamento della coppa acetabolare hanno riguardato il 33% dei casi mentre, in misura minore, si sono verificati malposizionamento delle componenti femorali (8%), fenomeni di impingement o attrito (9%) e usura dei materiali (7%). Infine, nel 7% dei pazienti esaminati, non si è riusciti a determinare precisamente la causa dell’instabilità. Dopo un follow-up medio di 35,3 mesi nel 14,6% dei soggetti si è prodotta nuovamente una lussazione; le revisioni acetabolari sono risultate protettive contro questa eventualità. Un’analisi di sopravvivenza con il metodo di Kaplan-Meier ha rivelato una percentuale di sopravvivenza del 79% a cinque anni. Escludendo i casi di insufficienza degli abduttori dell’anca, il successo è stato del 90%.
J Arthroplasty, 2012; 27(5):710-5
Nessun aumento di tumore nei pazienti con protesi d’anca
Risultati rassicuranti giungono da uno studio che ha indagato il rischio di tumori nei pazienti sottoposti a protesi d’anca con giunzione metallo-metallo rispetto ad altri accoppiamenti e rispetto alla popolazione generale. Ricercatori britannici si sono avvalsi dei dati registrati nei registri ortopedici di Inghilterra e Galles per recuperare i dati relativi a 40.576 pazienti che avevano ricevuto una sostituzione protesica d’anca metallo-metallo e a 248.995 soggetti per i quali erano stati utilizzati accoppiamenti realizzati con altri materiali. Per tutti questi soggetti è stata calcolata l’incidenza di tutti i tipi di tumori e quella specifica dei melanomi maligni, dei tumori ematologici, prostatici e renali. L’analisi ha evidenziato una percentuale bassa di nuove diagnosi di cancro successive a sostituzione d’anca: 1,25% all’anno, valore inferiore rispetto a quello previsto nella popolazione generale di pari età e dello stesso genere. In particolare, il ricorso a superfici metalliche non si è associato ad alcun aumento di rischio complessivo di diagnosi tumorale nei sette anni successivi all’intervento (ma il follow-up medio è stato di tre anni). Analoghi risultati si sono avuti restringendo l’analisi a singole forme tumorali. I dati sono indubbiamente confortanti, ma sono gli stessi autori a ricordare che alcuni tipi di tumore hanno un lungo periodo di latenza e a far rilevare che si è trattato di uno studio osservazionale e non randomizzato, in cui i dati ospedalieri raccolti potrebbero sottostimare il numero di diagnosi di tumore.
Lesione crociato, in adolescenti meglio terapia conservativa
I risultati del trattamento conservativo delle lesioni parziali del legamento crociato posteriore o delle avulsioni composte sono buoni nei giovani pazienti, secondo uno studio del Children’s Hospital di Boston. Gli autori hanno preso in considerazione 25 pazienti fino ai 18 anni di età, che dal 1993 al 2009 sono stati sottoposti a trattamento per 26 lesioni del crociato posteriore (in un caso il danno era bilaterale). Tra questi, 15 sono stati indirizzati alla chirurgia, mentre gli altri 11 hanno ricevuto una terapia di tipo conservativo. Questi ultimi, dopo un follow-up medio di 26,7 mesi sono tornati tutti alle attività quotidiane e sportive senza più avvertire sintomi di instabilità. Lo stesso risultato è stato raggiunto in quasi tutti i pazienti (14 su 15) che avevano subito l’intervento chirurgico, seguiti per un follow-up di durata analoga (27,8 mesi in media). I ricercatori hanno anche rilevato i punteggi Ikdc (International knee documentation committee), della scala di Lysholm e della scala di Tegner per valutare più precisamente il recupero funzionale e sportivo; nei pazienti non operati i valori sono stati rispettivamente di 87,4, 89,0 e 7,5 mentre in coloro che avevano ricevuto il trattamento chirurgico si sono rilevati indici di 81,3, 80,1 e 7,2. In entrambi i gruppi, nei ragazzi con dislocazione del ginocchio il recupero è stato inferiore con punteggio Ikdc che si è attestato mediamente a 70,2 rispetto all’85 rilevato negli altri soggetti.
J Pediatr Orthop, 2012; 32(6):553-60
Rigidità mattutina associata a discopatia e osteoartrite
La rigidità vertebrale mattutina si associa con la degenerazione del disco lombare e la correlazione aumenta quando la sensazione di rigidità si accompagna a dolore alla schiena. La correlazione è simile a quella che si riscontra tra l’osteoartrite e rigidità mattutina alle gambe, a livello del ginocchio e dell’anca. È uno dei risultati del Rotterdam Study, effettuato da ricercatori olandesi. Lo studio trasversale sulla popolazione generale ha coinvolto 2.819 soggetti di almeno 55 anni, sottoposti a radiografie lombari laterali (da L1-2 a L5-S1) per la misurazione degli spazi discali intervertebrali e degli osteofiti. Si è usata l’analisi di regressione logistica per valutare la correlazione tra la rigidità mattutina con la lombalgia, la degenerazione discale lombare (distinta in due tipi: presenza di osteofiti e stenosi lombare o narrowing), i vari sintomi e i reperti radiografici. Entrambe le definizioni di degenerazione discale lombare sono risultate associate alla rigidità vertebrale mattutina (odds ratio corrette, aOR: 1,5 per osteofiti e 1,8 per narrowing; in entrambi i casi i valori apparivano aumentati quando la rigidità vertebrale mattutina era accompagnata da dolore alla schiena: aOR: 1,5 e 2,5, rispetttivamente). Nei casi in cui la rigidità mattutina agli arti inferiori era combinata a dolore a livello del ginocchio o dell’anca, la correlazione con l’osteoartrite del ginocchio e dell’anca si è attestata a: aOR: 3,0 per il ginocchio e 3,1 per l’anca.
Osteoarthritis Cartilage, 2012; 20(9):982-7
Pseudoparalisi risolta da riparazione cuffia dei rotatori
La riparazione artroscopica della cuffia dei rotatori unita a tecniche di mobilizzazione può portare alla remissione della pseudoparalisi nel 90% dei pazienti che non hanno subito precedenti interventi. Lo dimostra uno studio retrospettivo della Oregon health & science University di Portland, che ha esaminato pazienti con lesioni massive della cuffia dei rotatori riparati per via artroscopica lungo un periodo di 10 anni. I partecipanti sono stati assegnati a due gruppi, distinguendo tra coloro che si erano sottoposti a chirurgia primaria e quelli che avevano ricevuto un intervento di revisione. La pseudoparalisi è stata definita in presenza di una flessione anteriore attiva non superiore ai 90° con flessione anteriore passiva completa. I ricercatori erano interessati a capire in che misura la chirurgia fosse efficace nel risolvere la pseudoparalisi, a verificare l’outcome funzionale e la presenza di complicazioni a un minimo di due anni di distanza dall’intervento. Tra i 39 pazienti sottoposti a intervento primario, dall’età media di 62 anni, la flessione anteriore attiva è migliorata notevolmente, passando da una media di 49° a una di 155° e la pseudoparalisi si è risolta nel 90% dei casi. Anche i 14 interventi di revisione (età media dei pazienti 63 anni) hanno prodotto un buon miglioramento nella flessione anteriore attiva, passata mediamente dai 43° ai 109°, mentre la pseudoparalisi è stata superata solo nel 43% dei casi. Anche le complicazioni sono state più frequenti tra i pazienti sottoposti a re-intervento.
Arthroscopy, 2012; 28(9):1214-9
Anomalie al ginocchio, risonanza meglio di radiografie
Nell’ambito del Framingham Osteoarthritis Study, le immagini ottenute tramite risonanza magnetica mostrano lesioni nell’articolazione tibio-femorale nella maggior parte degli uomini di mezza età e anziani in cui le radiografie al ginocchio non evidenziano segni di osteoartrite. Nella cittadina di Framingham, nel Massachusetts, 710 persone con più di cinquant’anni, che all’esame radiografico avevano un indice di Kellgren-Lawrence pari a zero, quindi senza evidenza di osteoartrite al ginocchio, sono stati sottoposti a risonanza magnetica. Tra i partecipanti, il 55% era costituito da donne, il 93% di razza bianca e il 29% aveva avuto dolori al ginocchio nel mese precedente; l’età media era di 62,3 anni e l’indice di massa corporea era in media di 27,9. L’analisi delle immagini Rm ha indicato una percentuale dell’89% dei soggetti con almeno una anomalia; la più comune tra queste è stata la presenza di osteofiti, riscontrata nel 74% dei soggetti, seguita da danni alla cartilagine (74%) e da lesioni del midollo osseo (52%). Si sono avute percentuali inferiori di altre anomalie come cisti subcondrali, lesioni al menisco, sinoviti o lesioni legamentose. Le anomalie sono state sempre più frequenti con l’aumentare dell’età dei partecipanti, mentre non si sono rilevate differenze significative rispetto ad altre variabili, come il sesso o l’indice di massa corporea. La presenza di almeno un’anomalia è stata elevata indipendentemente dal dolore nell’articolazione, ma con percentuali differenti: 90-97% in chi aveva segnalato una sintomatologia dolorosa rispetto all’86-88% negli altri.
Quadricipite più piccolo indice di osteoartrosi femoro-rotulea
Uno studio condotto presso le università di Melbourne e del Queensland, in Australia, evidenzia il ridotto volume del muscolo quadricipite come una delle caratteristiche dell’osteoartrosi all’articolazione femoro-rotulea. Gli autori hanno esaminato 22 pazienti con più di quarant’anni affetti da questa patologia e 11 pazienti di età simile che sono serviti come gruppo di controllo. Le immagini prodotte dalla risonanza magnetica della coscia hanno permesso di misurare i volumi muscolari del vasto mediale, del vasto laterale, del vasto intermedio e del retto femorale, che sono stati poi normalizzati in base al peso corporeo, mentre la sezione trasversale del vasto mediale e laterale è stata misurata a dieci livelli diversi a partire dai condili femorali. Ne è risultato che i soggetti con osteoartrosi all’articolazione femoro-rotulea avevano volumi normalizzati inferiori del muscolo vasto mediale (con una differenza media di 0,90 cm cubici/kg), del vasto laterale (1,50 cm cubici/kg) e del retto femorale (0,71 cm cubici/kg), mentre non sono state osservate differenze nel rapporto tra il volume del vasto mediale e del vasto laterale. Le sezioni trasversali misurate circa 8 cm al di sopra dei condili femorali nel gruppo di controllo e 12 cm nel gruppo con osteoartrosi sono state le misure maggiormente in grado di predire il volume del vasto mediale, mentre il volume del muscolo vasto laterale si è potuto stimare nel modo migliore a partire dalla sezione trasversale rilevata rispettivamente a 24 cm e a 20 cm dai condili. L’anatomia dei due muscoli è differente e riflette in maniera diversa la riduzione associata con l’osteoartrosi.
Osteoarthritis Cartilage, 2012; 20(8):863-8
Lombalgia, benefica la terapia cognitivo-comportamentale
Un programma intensivo di due settimane di interventi cognitivo-comportamentali, in pazienti selezionati e motivati con mal di schiena cronico, produce benefici che si sono mantengono stabili a un controllo a due anni. Lo ha dimostrato un gruppo di ricercatori olandesi, che ha esteso uno studio in cui era stata valutata l’efficacia di un intervento intensivo cognitivo-comportamentale sulla gestione del dolore alla distanza di un anno. Gli autori hanno registrato nei pazienti le variazioni della qualità della vita, della funzionalità quotidiana, dell’intensità dei sintomi dolorosi e del disturbo arrecato dal dolore allo svolgimento delle normali attività, oltre a controllare l’utilizzo di farmaci antalgici e il ricorso a servizi assistenziali. Gli stessi controlli sono stati effettuati in un follow-up a due anni e questo ha permesso di verificare la stabilità dei miglioramenti. Dei 90 pazienti selezionati, 85 hanno risposto al questionario finale, da cui risulta che gli effetti prodotti dal programma sono stati notevoli, sia riguardo alla capacità di svolgere le normali attività quotidiane che in generale sulla qualità di vita, che sono migliorate nel 65% dei partecipanti. Prima del trattamento, tutti i pazienti avevano sentito la necessità di rivolgersi al proprio medico di base oppure a uno specialista; invece, al controllo effettuato alla distanza di due anni, il 73% di loro ha dichiarato di non aver consultato medici a causa del mal di schiena nell’anno precedente. Inoltre, il 57% dei partecipanti non ha assunto alcun farmaco per ridurre il dolore, la percentuale di coloro che facevano uso di oppioidi è diminuita e l’81% ha dichiarato di svolgere un’attività lavorativa.
Eur Spine J, 2012; 21(7):1257-64
La viscosupplementazione è irrilevante nella gonartrosi
Nei pazienti con gonartrosi, l’iniezione intrarticolare di acido ialuronico (o viscosupplementazione) si associa a benefici clinici irrilevanti e a un aumentato rischio di eventi avversi gravi. Il pesante giudizio su una delle più diffuse terapie sintomatologiche per l’artrosi del ginocchio è stato pronunciato da un board internazionale (al quale ha partecipato, per l’Italia, l’università Gabriele d’Annunzio di Chieti) che ha effettuata una revisione sistematica con metanalisi di 89 trial randomizzati, per un totale di 12.667 pazienti adulti con gonartrosi, in cui la viscosupplementazione era messa a confronto con una tecnica simulate (sham) o con l’assenza di intervento. L’intensità del dolore e le riacutizzazioni sono state scelte come outcome primari, mentre quelli secondari riguardavano la funzione e gli eventi avversi. Nel complesso 71 trial (n=9.617) hanno mostrato una lieve riduzione del dolore mediante iniezione di acido ialuronico (effect size, dimensioni dell’effetto: -0,37). Si è rilevata una forte eterogeneità tra i trial e si è notato come le dimensioni dello studio, la valutazione in cieco dell’outcome e lo stato di pubblicazione fossero associati all’effect size. In 5 studi non pubblicati (n=1.149) quest’ultimo era pari a -0,03. In 18 ampi trial (n=5.094) con valutazione dell’esito in cieco è stato valutato un effect size clinicamente irrilevante, pari a -0,11. In 6 studi (n=811) è risultato che la viscosupplementazione aumentava, seppure in modo non statisticamente significativo, il rischio di riacutizzazioni (rischio relativo, Rr: 1,51). In 14 trial (n=3.667), infine, è apparso che l’iniezione intrarticolare di acido ialuronico aumentava il rischio di gravi eventi avversi
(Rr: 1,41).
Ann Intern Med, 2012 Jun 11. [Epub ahead of print]
Fratture colonna, lesioni e poco esercizio predicono scarso recupero
La presenza di lesioni nella parte centrale della colonna e la mancanza di esercizio fisico regolare rendono difficile il recupero delle capacità di svolgere le normali attività quotidiane dopo una frattura vertebrale osteoporotica. L’individuazione di questi due fattori prognostici si deve a uno studio prospettico giapponese condotto su 310 pazienti in 25 centri ospedalieri, trattati in modo conservativo senza chirurgia. In ognuno di questi, all’arruolamento e 6 mesi dopo la frattura si sono valutati il dolore, la capacità di svolgere l’attività quotidiana (Adl), la qualità di vita (Qol). Al follow-up stabilito, l’Adl è apparso ridotto nel 21,3% dei pazienti. All’analisi univariata è emerso che fossero significativamente associati con una diminuzione dell’Adl, l’età superiore a 75 anni, il genere femminile, la presenza di 2 o più pregresse fratture vertebrali, l’esistenza di una lesione nella parte centrale della colonna e la mancanza di un regolare esercizio fisico prima della frattura. Di questi fattori di rischio, all’analisi multivariata si sono confermati solo gli ultimi due, con valori di odds ratio rispettivamente di 2,26 e 2,49. I pazienti che presentano questi fattori di rischio, sostiene Tomiya Matsumoto dell’università di Osaka, autore dello studio, dovrebbero essere monitorati con maggiore attenzione e trattati in modo più intensivo.
Modelli di mortalità per ictus: va considerata la gravità
Nei modelli di rischio della mortalità ospedaliera dei pazienti con ictus ischemico a trenta giorni dall’evento, se si prende in considerazione la gravità dell’ictus si ottiene una misura più precisa della valutazione dell’outcome che identifica l’efficacia degli ospedali; si tratta di un parametro che influenza direttamente gli incentivi che, negli Stati Uniti, vengono erogati alle strutture ospedaliere. Infatti lo studio è americano ed è stato effettuato su 782 centri e 127.950 pazienti assicurati Medicare colpiti da ictus ischemico dal 2003 al 2009, con gravità valutata secondo il National institute of health stroke scale (Nihss). Questo indice può variare tra zero e 42 e i valori crescenti indicano una maggiore gravità dell’ictus. Lo score medio del Nihss, nella popolazione esaminata, è stato di 8,23 mentre, entro i primi trenta giorni, sono deceduti 18.186 pazienti (il 14,5%). L’introduzione dell’indice Nihss tra i parametri utilizzati dal modello che rappresenta la mortalità ospedaliera lo ha reso molto più preciso e ha prodotto una diversa classificazione degli ospedali. In particolare, c’è stata una diversa valutazione delle strutture che si collocavano nella parte più alta (top 20%) e in quella più bassa (bottom 20%) della classifica: considerando il parametro della gravità dell’ictus, il 26,3% di loro è stato riclassificato, finendo nella fascia media. Il 57,7% degli ospedali in cui la mortalità era stata valutata come peggiore rispetto alle attese è rientrato tra quelli con mortalità secondo le attese. Dopo l’introduzione dell’indice Nihss, inoltre, si è avuto un miglioramento netto di riclassificazione del 93,1%.
Dolore cronico al collo, esercizi meglio con supervisione esperti
In uno studio randomizzato controllato americano su pazienti con dolori cronici al collo, esercizi di rafforzamento effettuati sotto supervisione, con o senza manipolazione, hanno prodotto risultati migliori rispetto agli esercizi svolti a casa, soprattutto nel breve termine. I 270 pazienti studiati lamentavano dolore al collo aspecifico che durava da almeno 12 settimane e di intensità almeno pari a 3 in una scala da 0 a 10. Un terzo di loro ha seguito un programma intenso di esercizi di rafforzamento con l’aiuto di terapisti e la supervisione di clinici combinati con interventi di manipolazione spinale o di mobilizzazione, un altro terzo ha effettuato gli stessi esercizi ma senza manipolazione, mentre ai rimanenti sono stati assegnati esercizi più blandi da eseguire a casa. Oltre che al basale, gli autori dello studio hanno controllato i partecipanti dopo 4, 12, 26 e 52 settimane, verificando la presenza e l’intensità del dolore oltre ad eventuali disabilità, allo stato di salute generale, all’uso di medicinali, all’effetto percepito e alla soddisfazione riguardo al trattamento ricevuto. Gli esercizi intensi, effettuati sotto la supervisione di esperti, hanno mostrato un’efficacia maggiore nel ridurre il dolore rispetto al programma domiciliare, mentre la manipolazione non ha prodotto un miglioramento aggiuntivo. Gli effetti sono stati evidenti soprattutto nel controllo dopo 12 settimane; a un anno le differenze si sono affievolite, ma un’analisi statistica complessiva ne ha confermato il vantaggio. Risultati analoghi si sono registrati anche considerando l’effetto percepito e la soddisfazione dei pazienti.
Spine, 2012 May 15; 37(11):903-14
Depressione: attività fisica inefficace, anche se supportata
In uno studio della University of Bristol, un programma di attività fisica facilitata aggiunta alle usuali terapie contro la depressione non ha prodotto miglioramenti nella patologia né ha portato alla riduzione dell’utilizzo di farmaci antidepressivi. Il trial si è indirizzato a 361 adulti, dai 18 fino ai 69 anni, che si erano di recente rivolti al proprio medico di base accusando i sintomi depressivi, poi confermata attraverso l’analisi delle risposte all’inventario Beck della depressione. Oltre all’usuale intervento farmacologico, ai partecipanti è stato proposto un programma della durata di otto mesi, costituito da tre sessioni vis-a-vis e da dieci colloqui telefonici con un facilitatore di attività fisica esperto. L’intervento è stato studiato allo scopo di fornire un supporto motivazionale alla pratica di una regolare attività fisica. Al momento di valutare i risultati dell’intervento, non si è avuta nessuna evidenza di miglioramento dell’umore rispetto ai pazienti trattati solo con i farmaci. Nel controllo a quattro mesi c’è stata una diminuzione nel punteggio medio ottenuto con l’inventario Beck, ma solo di 0,54 punti. Analogamente, il gruppo di intervento non ha fatto registrare progressi a otto e dodici mesi. Il trattamento non è neppure servito a diminuire l’utilizzo di antidepressivi lungo la durata dello studio. L’attività di counseling è servita effettivamente a convincere i pazienti a fare più esercizio fisico, ma la maggiore attività non si è tradotta in un’attenuazione dei sintomi della depressione.
Potenziato l’algoritmo su rischio fratture osteoporotiche
Due ricercatrici inglesi hanno sviluppato e convalidato una versione modificata di un algoritmo in grado di stimare nella popolazione il rischio di fatture osteoporotiche o di frattura d’anca. Imponenti i numeri dello studio che, utilizzando dati forniti dai medici di base, ha analizzato 3.142.673 persone, dai trent’anni in su, per la derivazione dell’algoritmo e 1.583.373 per la sua validazione, per un totale rispettivamente di 23.608.337 e di 11.732.106 persone-anno. Sono stati identificate 59.772 diagnosi di fratture osteoporotiche nel gruppo di derivazione e 28.685 nel gruppo di controllo. Le autrici hanno rilevato numerosi fattori che si sono associati in modo significativo con il rischio di frattura nelle donne: età, indice di massa corporea, provenienza etnica, consumo di alcol, abitudine al fumo, broncopneumopatia cronica ostruttiva o asma, tumori di qualsiasi tipo, malattie cardiovascolari, demenza, diagnosi di epilessia e relativo trattamento, cadute e fratture precedenti, patologie epatiche croniche e renali, artrite reumatoide o lupus eritematoso sistemico, morbo di Parkinson, diabete, disturbi endocrini, malassorbimento gastrointestinale, storia familiare di osteoporosi e trattamento con antidepressivi, corticosteroidi, terapia di sostituzione ormonale. Tra gli uomini i fattori di rischio sono pressoché gli stessi, a cui va aggiunto il fatto di risiedere in comunità per anziani, ma statisticamente le fratture e specialmente quelle osteoporotiche – si sono avute in misura maggiore tra le donne. L’algoritmo, in una versione modificata rispetto a quella precedente del 2009, è risultato più preciso e ha spiegato il 71,7% delle fratture d’anca nelle donne e il 70,4% negli uomini.
Danno strutturale in gonartrosi: in obesi migliora se peso cala
Nei soggetti obesi con artrosi del ginocchio, la presenza di un danno strutturale non preclude un miglioramento dei sintomi se si raggiunge un calo rilevante del peso corporeo. Lo rivelano i risultati di uno studio danese su 192 pazienti con età superiore ai 50 anni, indice di massa corporea di almeno 30kg/mq e osteoartrite del ginocchio. I partecipanti sono stati controllati attraverso radiografie e risonanza magnetica del ginocchio maggiormente sintomatico alla baseline e dopo 16 settimane, durante le quali sono stati sottoposti a un apposito programma dietetico e supportati con un’attività di counseling. Il danno strutturale è stato misurato grazie al Bloks (Boston-Leeds osteoarthritis knee score), l’ampiezza minima dello spazio articolare e lo score radiografico di Kellgren e Lawrence. Infine sono state misurate variabili, tra cui la forza muscolare e il grado di allineamento, considerate predittive di cambiamenti negli indici che valutano il grado di osteoartrite. Ne è risultato che il danno strutturale all’inizio del trial non si è associato in maniera statisticamente significativa ai cambiamenti riguardo alla funzionalità e al dolore dell’articolazione. Era già noto che la perdita di peso deve essere raccomandata per i pazienti con osteoartrosi di ginocchio e che nella maggior parte dei casi porta ad alleviare i sintomi; il trial danese indica che i benefici si estendono anche ai pazienti con danno strutturale.
Osteoarthritis Cartilage, 2012; 20(6):495-502
Le fratture femorali nei pazienti con protesi di ginocchio
Il trattamento delle fratture femorali distali dopo artroprotesi totale di ginocchio può essere molto complesso, richiede attrezzature specifiche e una notevole competenza chirurgica. Tre studiosi britannici e uno greco hanno esaminato la letteratura scientifica e hanno riassunto in un articolo le evidenze aggiornate sull’argomento. Gli autori fanno notare che l’incidenza delle fratture periprotesiche dell’estremo distale sopracondilare del femore sono destinate inevitabilmente ad aumentare con il maggior numero delle artroprotesi di ginocchio e con la crescente aspettativa di vita dei pazienti. Queste fratture dovrebbero essere trattate in centri specialistici in cui siano garantiti gli skill chirurgici necessari traumatologia e artroplastica e tutto il supporto perioperatorio. Le fratture con buon stock osseo distale e protesi femorale ben fissata possono essere trattate con il sistema delle placche bloccate o con chiodo endomidollare retrogrado. Per quelle fratture in cui la protesi femorale è stabile ma c’è una quantità di osso insufficiente per le viti di una placca bloccata standard o per un chiodo retrogrado, si può ricorrere a placche poliassiali o a una revisione della componente femorale. In caso di allentamento della protesi è opportuno un intervento di revisione. In pazienti in cattive condizioni di salute generale, si tende invece a preferire un trattamento non chirurgico. Gli autori, pur fornendo un algoritmo che può essere di ausilio per prendere le decisioni migliori, sottolineano che in questi casi il chirurgo deve «prepararsi per l’inaspettato»: spesso impianti che dalle immagini radiografiche appaiono ben fissati possono richiedere cambi di strategia quando, durante l’intervento, si verifica direttamente il reale stato delle cose.
Osteoartrosi temporomandibolare: review Cochrane
Nel trattamento dell’osteoartrosi (Oa) dell’articolazione temporomandibolare (Atm) esistono evidenze sufficienti a dimostrare un’equivalente efficacia nel ridurre il dolore e il fastidio nella regione orofaciale tramite iniezioni intrarticolari di ialuronato di sodio o preparazioni cortisoniche, così come vi sono prove di una pari diminuzione algica ricorrendo al diclofenac sodico o a uno splint occlusale. Inoltre, la glucosamina sembra essere tanto efficace quanto l’ibuprofene. È l’esito di una revisione realizzata da Rafael F. de Souza dell’università di San Paolo (Brasile) e colleghi con l’obiettivo di confrontare i benefici ottenibili con le differenti opzioni chirurgiche e mediche nella gestione dell’osteartrosi dell’Atm. I ricercatori hanno consultato i principali archivi informatici, senza restrizioni linguistiche. Sono stati presi in considerazione trial randomizzati e controllati (Rct) che mettevano a confronto qualsiasi forma di terapia medica o chirurgica per l’Oa dell’Atm in adulti di età superiore ai 18 anni con diagnosi clinica e/o radiologica della patologia. Come outcome primari si sono considerati dolore/tumefazione/fastidio all’Atm o ai masseteri, l’autovalutazione del grado di movimento mandibolare e dei rumori articolari. Gli outcome secondari, invece, sono stati la qualità della vita o la soddisfazione del paziente valutati tramite questionario, i cambiamenti morfologici dell’Atm rilevati mediante imaging, i suoni articolari colti tramite auscultazione e qualsiasi evento avverso. Al termine, sono stati inclusi nella revisione 3 trial e il raggruppamento dei dati per l’effettuazione di una meta-analisi non è stato possibile per via dell’ampia diversità clinica tra gli studi. Data la scarsità di evidenze di alto livello riguardanti l’efficacia degli interventi, secondo gli autori di questa revisione andrebbe incoraggiato l’avvio di studi a piccoli gruppi paralleli che includano soggetti con diagnosi di certezza e soprattutto che si valutino alcuni dei possibili interventi chirurgici.
Cochrane Database Syst Rev, 2012; 4:CD007261
Chirurgia mammaria, meno linfedema con fisioterapia
Interventi fisioterapici precoci possono prevenire l’insorgenza di linfedema secondario a chirurgia per carcinoma mammario. è quanto pubblicato di recente su British medical journal da Maria Torres-Lacomba del physiotherapy Department, School of physiotherapy, Alcal de Henares University di Madrid. L’indagine ha riguardato 120 pazienti sottoposte ad asportazione chirurgica di linfonodi ascellari, tra maggio 2005 e giugno 2007. Per un intero anno, le partecipanti sono state randomizzate a un intervento educazionale (gruppo controllo) oppure a uno specifico programma di fisioterapia comprendente linfodrenaggio manuale, massaggio del tessuto cicatriziale ed esercizi della spalla. A tutto questo è stato abbinato anche l’intervento educazionale. Al termine del follow-up, il 16% delle pazienti ha sviluppato linfedema, di cui il 25% faceva parte del gruppo controllo e il 7% di quello sottoposto a fisioterapia. In conclusione, diagnosi di linfedema sono state quattro volte più numerose nel gruppo controllo, rispetto a quello trattato con approccio fisioterapico (fisioterapia/controllo, hard ratio = 0,26).
BMJ. 2010 Jan 12;340:b5396. doi: 10.1136/bmj.b5396.
Tossina botulinica: niente prove per il dolore cronico al collo
Non esistono prove scientifiche he le iniezioni di tossina botulinica portino benefici clinicamente rilevanti o statisticamente significativi in caso di dolore cronico al collo, con o senza associazione a cefalea cervicogenica. Allo stesso modo la letteratura non riporta alcun beneficio, sotto il profilo della disabilità e della qualità di vita, a 4 settimane e a 6 mesi dall’iniezione. È il verdetto di una revisione sistematica Cochrane effettuata da Pierre Langevin, dell’université Laval, a Quebec City (Canada), e colleghi. Dai ricercatori sono stati inclusi nell’analisi 9 trial (per un totale di 503 partecipanti), in cui era stata impiegata solo la tossina di tipo A. Evidenze di alta qualità indicano che, nei pazienti con dolore cronico del collo, iniettando tossina A o placebo (soluzione salina) dopo 4 settimane e 6 mesi si rilevano differenze di dolore minime o inesistenti (5 trial; n=252). Prove di qualità molto bassa, invece, riguardano minime o nulle differenze di dolore riscontrate, nella stessa tipologia di pazienti, in seguito alla somministrazione di tossina botulinica combinata con fisioterapia e analgesici, da un lato, e all’iniezione di salina sempre associata a fisioterapia e analgesici a 4 settimane (2 trial; n=95) e a 6 mesi (1 trial; n=24 partecipanti). Prove di qualità molto povera da 1 studio (n=32) non hanno evidenziato differenze tra tossina botulinica e placebo a 4 settimane e a 6 mesi nel trattamento della cefalea cronica cervicogenica. Ancora evidenze di qualità molto bassa da 1 trial (31 partecipanti) hanno indicato una differenza di effetto percepito globale in favore della tossina botulinica rispetto al dolore cronico del collo a 4 setttimane. Sulla base delle prove disponibili, affermano gli autori, non si hanno motivazioni per supportare l’uso della tossina come terapia indipendente per il dolore al collo, ma si invitano i ricercatori a considerare studi futuri per chiarire se la dose da somministrare può essere ottimizzata per questo disturbo.
Cochrane Database Syst Rev, 2011; 7:CD008626
Bpco: riabilitazione polmonare riduce rischio cardiovascolare
I fattori di rischio cardiovascolare, tra cui la pressione arteriosa e pertanto la rigidità aortica, risultano migliorati nei pazienti affetti da broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco) dopo un corso di riabilitazione polmonare standard multidisciplinare. È quanto ha dimostrato uno studio – condotto da Nichola S. Gale,del dipartimento di Fisioterapia dell’università di Cardiff (Regno Unito), e collaboratori – in cui 32 pazienti stabili con Bpco in riabilitazione avviata sono stati messi a confronto con 20 controlli corrispondenti per età e genere. In tutti i partecipanti sono stati misurati la velocità d’onda di polso aortica (Pwv), fattore predittivo indipendente non invasivo di rischio cardiovascolare, la pressione arteriosa, l’interleuchina-6 (Il-6), la glicemia a digiuno e il profilo lipidico. Queste rilevazioni, insieme al test del cammino incrementale (Incremental shuttle walk test, Iswt), sono state ripetute nei pazienti che hanno completato la riabilitazione polmonare. All’inizio di quest’ultima la Pwv aortica risultava aumentata nei pazienti rispetto ai controlli, nonostante fossero simili il valore di pressione arteriosa, l’età e il genere. Anche l’Il-6 appariva incrementata. Nei 22 pazienti che hanno portato a termine lo studio, la riabilitazione ha ridotto la Pwv aortica media da 9,8 a 9,3 m/s, e i valori pressori sistodiastolici rispettivamente di 10mmHg e 5mmHg. Sono migliorati anche la colesterolemia totale e l’Iswt. All’analisi di regressione lineare, la riduzione di Pwv aortica è stata attribuita alla riduzione di pressione arteriosa.
Mal di schiena cronico: scelta tra protesi discale e riabilitazione
Nei pazienti con mal di schiena cronico, la chirurgia con protesi discale determina un miglioramento significativamente maggiore dell’indice Oswestry per la disabilità rispetto alla riabilitazione. Tuttavia, secondo lo studio condotto da Christian Hellum dell’Ospedale universitario dell’Oslo e collaboratori del Gruppo di studio norvegese sulla colonna vertebrale, tale miglioramento non supera in maniera chiara la differenza di 10 punti tra i gruppi, ritenuto il valore minimo per poter parlare di importante differenza clinica. L’indagine ha arruolato 173 pazienti con una storia di dolore lombare da almeno un anno, con uno score di almeno 30 punti all’indice di Oswestry e alterazioni degenerative a livello di una o due vertebre lombari; 86 di questi pazienti sono stati avviati in modo randomizzato alla chirurgia. A due anni la differenza media tra i due gruppi era pari a -8,4 punti a favore della chirurgia (intervallo di confidenza 95% compreso tra -13,2 e -3,6). Per quanto concerne gli outcome secondari prespecificati si sono registrate significative differenze a favore della chirurgia per il dolore lombare (media: -12,2), soddisfazione dei pazienti (63% vs 39%), componente fisica dello score SF-36 (media: 5,8), autoefficacia per il dolore (media: 1,0) e scala Prolo (media: 0,9). Nessuna differenza significativa è emersa relativamente ad altri parametri tra i quali ritorno al lavoro, componente mentale dello score SF-36 ed EuroQol-5D. Gli autori evidenziano come le differenze dello score di Oswestry includano un ampio spettro di valori, comunque ben al di sotto di 10 punti: al momento della decisione terapeutica, quindi, si dovrà tenere conto sia dei rischi della chirurgia sia della sostanziale quota di miglioramento di cui beneficia una notevole percentuale di pazienti avviati a riabilitazione.
Bpco: ansia e depressione compromettono riabilitazione
Ansia e depressione sono significativamente associate a un’aumentata dispnea, a una ridotta performance funzionale e a una peggiore qualità di vita nei pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco). Tali associazioni negative restano stabili nel corso di un programma di riabilitazione (Pr), anche dopo aver conseguito un miglioramento della sintomatologia respiratoria. È quanto hanno evidenziato Andreas von Leupoldt, del dipartimento di Psicologia dell’università di Amburgo, e collaboratori, in uno studio volto a valutare l’impatto dei disturbi dell’umore sugli outcome della patologia respiratoria. A tale scopo, 238 pazienti con Bpco (età media: 62 anni) sono stati sottoposti a test del cammino per sei minuti (6Mwt) prima e dopo lo svolgimento di Pr. Inoltre, si sono misurate ansia, depressione e qualità di vita a riposo, dopo 6Mwt e nel corso delle normali attività. Fatta eccezione per la dispnea a riposo, si sono osservati miglioramenti in tutte le misure di esito dopo Pr. Mediante analisi di regressione multipla si è dimostrato che, prima e dopo Pr, ansia e depressione sono associate in modo significativo a una dispnea più grave dopo 6Mwt e in corso di attività, e a una ridotta qualità di vita, anche dopo aggiustamento per gli effetti dell’età, del sesso, della funzione polmonare e della condizione di fumatore. Inoltre l’ansia, prima e dopo Pr, è risultata correlata a una dispnea di grado maggiore a riposo, laddove la depressione era associata in modo significativo con una ridotta performance funzionale al 6Mwt. Questo risultati concludono gli autori sottolineano l’importanza clinica del riconoscimento e del trattamento degli stati di ansia e depressione nei pazienti con Bpco.
Chest, 2011 Mar 31. [Epub ahead of print]
Riabilitazione post-infarto basata sull’esercizio
La riabilitazione cardiaca (Cr) post-infarto miocardico basata sull’esercizio fisico è associata a riduzioni dei tassi di mortalità e di reinfarto. Lo dimostra una meta-analisi di trial randomizzati controllati – effettuata da Patrick R. Lawler, dell’università McGill di Montréal (Canada), e collaboratori – dalla quale è emerso come anche programmi di più breve periodo possano tradursi in outcomes migliorati a lungo termine (anche se occorrono ulteriori ricerche per confermare questi dati). L’interesse dell’argomento, spiegano gli autori, risiede nel fatto che la Cr mediante esercizio fisico rappresenta uno strumento sottoutilizzato per la prevenzione secondaria nel post-infarto, e che tale atteggiamento sembra risiedere nella mancanza di certezze riguardo la sua efficacia, specie in riferimento alla prevenzione del reinfarto. Si è allora eseguita una ricerca sistematica su Medline, e sono stati selezionati 34 trial randomizzati controllati (per un totale di 6.111 pazienti) riguardanti gli effetti della Cr post-infarto mediante esercizi fisici. Nel complesso i pazienti assegnati ai gruppi con esercizi presentavano un rischio minore di reinfarto (odds ratio, Or: 0,53), mortalità cardiaca (Or: 0,64) e mortalità per tutte le cause (Or: 0,74). Nelle analisi stratificate gli effetti del trattamento sono risultati costanti indipendentemente dai periodi dello studio, dalla durata della Cr o del tempo trascorso dopo l’intervento attivo. Da sottolineare, inoltre, che la Cr con training fisico ha mostrato effetti favorevoli su vari fattori di rischio cardiovascolare, come il fumo, la pressione arteriosa, il peso corporeo e il profilo lipidico.
A Heart J, 2011 Sep 5. [Epub ahead of print]
Anziani in riabilitazione: capacità vitale e sopravvivenza
Dall’esame di pazienti anziani con disabilità impegnati in un periodo di riabilitazione, risulta che il migliore indice predittivo di sopravvivenza a 2 anni è la capacità vitale, insieme ad alti valori di albumina e a un basso Charlson comorbidity index score. Il dato emerge da uno studio prospettico trasversale effettuato da un gruppo di ricercatori guidato da Alessandra Marengoni dell’Unità geriatrica dell’università di Brescia su 243 persone di età pari o superiore a 65 anni, arruolate lungo un periodo di 12 mesi (2007-8) e seguite per 2 anni. Sono stati identificati alcuni possibili fattori predittivi di sopravvivenza da un ampio spettro di caratteristiche demografiche, cliniche (Charlson comorbity index, dati di laboratorio), nutrizionali (Mini-nutritional short-form, analisi bio-impedenzometrica) e respiratorie (spirometria). Si sono quindi utilizzati modelli di regressione logistica per valutare l’associazione tra le caratteristiche dei pazienti e la sopravvivenza. L’86,3% dei partecipanti (n=189) era vivo dopo 2 anni di follow-up. Vari elementi sono risultati significativamente associati alla sopravvivenza: l’età inferiore, un migliore stato funzionale alla dimissione, un più basso Charlson index score, valori più elevati di emoglobina e albumina alla dimissione,i valori più bassi di glicemia basale a digiuno, la capacità vitale e quella inspiratoria. Nel modello multivariato, i più alti valori di capacità vitale e albumina erano associati con la sopravvivenza (odds ratio, rispettivamente: 6,2 e 3,7) mentre il Charlson comorbidity index (0,77) e il genere maschile (0,23) hanno mostrato una correlazione inversa.